Il brusio delle cose

Jon Bird - settembre 2005

“In definitiva la fotografia è sovversiva non quando spaventa,ripugna o addirittura stigmatizza, ma quando è riflessiva, quando pensa."
Roland Barthes, La camera chiara

Per la generazione attuale, la fotografia in bianco e nero è anacronistica
The Guardian, 18/8.05

Il lavoro di Raffaela Mariniello è in controtendenza rispetto a gran parte della fotografia contemporanea, caratterizzata prevalentemente da immagini grandi, a colori ed elaborate con tecnica digitale. Per quel suo rifarsi a fotografie storiche di paesaggi, documentarie e in bianco e nero, per la sua Linhof 4” x 5” a tempi lunghi, Raffaela Mariniello si fa apprezzare proprio perché al di fuori delle mode ed essenziale nell’affrontare i propri soggetti. Recentemente ha sperimentato altri generi, in particolare il video, trasportando così il movimento insito in molte sue immagini - il vento che scompiglia il profilo di alberi e cespugli o confonde la sagoma di stoffe o vele, lo strano effetto che ha un’esposizione di quindici minuti sulla superficie dell’acqua, quando moto ondoso e corrente si fondono in opache sbavature – in una dimensione filmica con proiezioni su multischermo. Le fotografie di aree portuali fatiscenti, di porti affacciati sul Mediterraneo e, più di recente, Cardiff nel Galles meridionale, o quegli intermezzi spaziali che marcano i margini e i confini degli agglomerati urbani – ad esempio a Napoli, sua città natale - si contraddistinguono per una serie di opposizioni formali e concettuali: buio/luce, paesaggio naturale/fabbrica, terra/acqua, immobilità/movimento, assenza/presenza, primo piano/sfondo, pubblico/privato ecc…
Il suo genere è il paesaggio, che rimanda a modelli nord europei, propri della tradizione della pittura olandese o inglese del XVII e XVIII secolo. Proprio in questo periodo il paesaggio si affrancò dalle radici classiche e gli artisti iniziarono a rappresentare la graduale trasformazione della natura a luogo domestico, mentre il confine tra campagna e città si spostava e si restringeva e l’industria si sostituiva all’economia agraria invadendo e sconvolgendo le campagne con nuove tecnologie – l’opificio, la nave mercantile e il canale, la riorganizzazione dell’agricoltura, la miniera e la fabbrica. Gli archivi fotografici documentano la rapida evoluzione del concetto di ‘naturale’ e ‘urbano’, mettendo a nudo il carattere costruito e intertestuale di tali formulazioni. Persino le rappresentazioni più estetizzanti e formali danno testimonianza di una politica culturale.
La prima e ovvia osservazione sull’attività fotografica di Raffaela Mariniello, oltre all’assenza della figura umana, è che l’immagine non si lascia ricondurre a fonte di informazione. Certo i soggetti sono in linea di massima riconoscibili, ma i loro particolari si presentano intriganti per l’ambiguità o per l’autonomia rispetto al contesto: che funzione avranno mai i tubi in plastica avvolti a spirale in primo piano rispetto all’area portuale di Palermo, o una raccolta di fusti di metallo lungo una via di Beirut, o quella che sembra essere un’esplosione di materiali appesi a una sbarra in un’altra area del porto di Palermo? Che cosa ci fanno tutti quei motorini abbandonati in una grotta a Napoli – cimitero di fantasie da dolce vita dei giovani italiani? Mentre la luce, secondo la tradizione filosofica occidentale, rivela il mondo conoscibile, lo sguardo di Raffaela Mariniello si volge all’indietro nell’antro oscuro di una grotta. È infatti il mito platonico della caverna che viene rappresentato – un interno desolato del quartiere di Billybanks a Cardiff che incornicia le luci della costa in lontananza - e sottolineato con ironia nella fotografia dei motorini confiscati. Non sono ragione e verità ad essere illuminate, ma un commento malinconico sulle limitazioni di certe libertà e un commento ironico sull’abbandono della dimensione utopistica della modernità sociale.

Victor Hugo, in Les Miserables, descrive il singolare fascino degli spazi intermedi, il punto di incontro tra sobborghi urbani e campagna, la ‘banlieue’: ‘Osservare la zona rurale significa osservare l’anfibio: fine degli alberi e principio dei tetti, fine dell’erba e principio del selciato, fine dei solchi e principio delle botteghe, fine delle carreggiate e principio delle passioni, fine del mormorio divino e principio del rumore umano’ … (2) Lo storico dell’arte T.J. Clark riprende questo tema nelle sue considerazioni sulla pittura modernista The Painting of Modern Life, sostenendo che la banlieue era ‘luogo di straccivendoli, zingari e gasometri’, quel genere di spazi malinconici raffigurato da Van Gogh nel quadro La Banlieue di Parigi (1886).(3) Qui edifici, fabbriche e magazzini che si profilano sullo sfondo contro il cielo, sono il commento ad una natura abusata, - zolle di prato e erbacce, uno steccato spaccato, viottoli che si formano da sbavature di pittura, una lampada a gas e qualche figura sparsa qua e là. E una curiosità per l’esotismo del quotidiano esteso anche alla fotografia in quest’epoca; Susan Sontag paragona il fotografo al simbolo onnipresente della vita borghese nelle città verso la fine del XIX secolo, il ‘flaneur’, colui che vaga senza una meta per le strade: ‘Il fotografo è una versione armata del camminatore solitario che esplora, con incedere solenne, vagando per diporto nell’inferno urbano, il vagabondo un po’ voyeur che scopre la città come panorama di voluttuosi estremi’. Come il ‘flaneur’, non sono le cose tradizionali che attirano lo sguardo, bensì gli aspetti sordidi della città, i suoi abitanti derelitti …’. (4)

Tutti questi elementi, ad eccezione della figura, sono presenti nel metodo di lavoro e nel linguaggio estetico di Raffaela Mariniello. Effettivamente, il suo racconto personale nelle fotografie dei sobborghi di Napoli ricorda Hugo, ‘straccivendoli e zingari’ diventati “scippatori e drogati” come se lavorasse in uno stato di perenne apprensione, sempre vigile al fascino e ai pericoli tipici di un paesaggio urbano che conserva traccia del naturale. La poetica dei margini, dei confini, dei limiti, di un organico che si infiltra nell’industriale, di sentieri che non portano da nessuna parte o confluiscono nell’oscurità, dei cartelloni pubblicitari e delle finestre oscurate, dei loro messaggi consumistici o delle loro attività cancellate dal flash. Ed ovunque la vicinanza all’acqua – che si spande nelle pozzanghere, che satura crepe e fessure di aree portuali usurate o abbandonate o che separa il porto da edifici distanti e il mare oltre. Non vi è nessun accenno al ‘sublime oceanico’, alla sua forza immensa, in costante mutazione e movimento. Qui l’acqua invece è inevitabilmente superficie, luce, riflesso, separazione, divisione lattea, talvolta opalescente, tra primo piano e lontananza, o riempitivo argenteo di fenditure e cavità, tracce lasciate dal lavoro umano e dall’industria. Il lungo tempo di esposizione di ciascuna immagine – che varia da venti secondi a quindici minuti – trasforma ogni movimento residuo in una visione confusa cosicché la superficie dell’acqua, i veicoli sulla strada, il fruscio del vento tra alberi e cespugli, crea spazi incerti nel campo visivo, ossessionato dalla presenza spettrale dell’impronta del tempo sul corpo.
In alcuni casi, i lunghi tempi di esposizione insieme all’uso del flash determinano l’eliminazione del particolare lasciando la superficie vacua di un bianco assoluto che funge da intrusione anamorfica sconvolgendo la coerenza dell’immagine e trattenendo il nostro sguardo. Infatti le variazioni di tonalità, (alcune delle quali ottenute mediante il lavoro in camera oscura) – come il chiaroscuro in pittura – distorcono la prospettiva arretrante, confondono la distanza e i rapporti spaziali già di per sé instabili per la mancanza di una figura umana che assicuri grandezze e proporzioni.

Le rappresentazioni dell’acqua di Raffaela Mariniello capovolgono le consuete associazioni culturali con una forza dispensatrice di vita e rigeneratrice, metaforicamente connessa al soggetto umano, il cui movimento ritmico – il flusso e riflusso della marea che si muove per effetto della pressione gravitazionale –, riecheggia i nostri schemi più intimi, un nesso che conduce da sempre ad associazioni mentali con il riprodursi e il generare. L’acqua indistinta dei suoi mari, estuari e porti, fa pensare a una superficie ghiacciata, alla pesantezza fangosa di un liquido in parte solidificato, mentre alcune aree più piccole hanno la precisione dell’acciaio lucido e assorbono tutta la luce disponibile per inferire un’altra frattura in questi desolati spazi urbani. In alcuni casi lo si può leggere come un effluente industriale – petrolio, o altra sostanza chimica più sinistra. E’ costante l’allusione al fatto che non molto di quanto si intende per vita marina riuscirebbe ad acclimatarsi in quest’acqua inquinata dai processi e dai detriti della manifattura industriale. Sono considerazioni che sollevano interrogativi sul ‘contenuto’ politico e sociale dell’immagine, abituale territorio di forme di realismo critico. Non credo che ve ne sia l’intenzione, ma l’insieme di queste immagini ha per effetto una rappresentazione particolarmente impegnata del paesaggio urbano, una riflessione mesta e disincantata sul mondo, che rasenta l’allegoria. Sul piano formale ciascuna immagine presenta una somiglianza strutturale: “Le mie fotografie hanno sempre un primo piano e uno sfondo”. Il primo piano può essere occupato da una strada o da un viottolo che conducono nello spazio pittorico, acqua, riferimenti alla natura – alberi o cespugli, prato, erbacce, cumuli di terra e banchi di sabbia, oggetti di uso domestico o industriale, indefinibili materiali per edilizia - orifizi e protuberanze che fungono da metafore del corpo umano. Gli sfondi portano essenzialmente i segni dell’industria, saltuariamente di alloggi, una rara intrusione di spazi domestici in queste visuali desolate. Muri, staccionate e inferriate racchiudono o collegano il primo piano allo sfondo e l’unica prova della presenza umana, ad eccezione della nostra memorizzazione nelle tracce lasciate dal lavoro dell’uomo, sta nelle finestre illuminate di un edificio lontano.

Tutti i luoghi sono documentati nel momento in cui la luce naturale si spegne e subentra l’illuminazione artificiale, le ore del crepuscolo e dell’imbrunire (‘la fase più buia del crepuscolo’). Il tramonto è ‘una condizione o un momento intermedio …. prima o dopo il pieno sviluppo’; ‘buio, oscuro, ombroso’, quell’ora del giorno in cui la vista inganna la percezione, l’oscurità avvolge lo spazio e contrae la distanza e l’illuminazione stradale emette un chiarore quasi stellare o accarezza le superfici di forme e materia. Di giorno Raffaela Mariniello fa dei sopralluoghi, sceglie l’inquadratura e ritorna al calare della sera, affidandosi all’effetto combinato di illuminazione stradale, luce artificiale aggiunta da lei stessa per supplire alla luce del giorno che viene gradualmente meno e dare al primo piano un effetto a rilievo, creando contrasti e risalti caravaggeschi. Tuttavia, nonostante i pericoli reali o immaginari di questi luoghi abbandonati o periferici, il rischio non ha mai connotazioni teatrali o melodrammatiche – non ci si aspetta di vedere un cadavere seminascosto sotto un cumulo di macerie o una mano che spunta fuori dall’acqua, o qualche altra parte del corpo umano nascosta nei cespugli – non c’è spazio per David Lynch, c’è più la sensazione di casualità e disattenzione. No, quelli commessi sono piuttosto crimini di omissione: cose smesse, ignorate, avanzate, quanto rimane dopo che i regimi sociali ed economici se ne sono andati. (E, dopo gli scritti autorevoli di Barthes sulla fotografia, in particolare La camera chiara, l’emozione fotografica viene sempre messa in relazione con sentimenti di lutto, malinconia e perdita). Si potrebbe elaborare ulteriormente la metafora criminale trovando nel metodo di Raffaela Mariniello qualcosa di simile a un’indagine della scientifica: la ricerca di un posto giusto, il ritornare sul luogo con l’attrezzatura adatta, l’approntare l’apparato investigativo, la documentazione fotografica della scena. Gli indizi sono già lì che aspettano di essere scoperti, il carattere incidentale e quotidiano del soggetto accentua l’osservazione deduttiva di un punto di vista significativo, quindi il bisogno di un’esposizione lunga per catturare tutta la luce disponibile, la macchina fotografica che penetra persino in aree di primo acchito non percepibili a occhio nudo. E’ quindi l’opposto dell’immediatezza diffusa nel fotogiornalismo e nella veridicità dei documentari ed è invece fotografia come evento rappresentato. In quanto tale, vi sono riferimenti ai modi artistici degli anni ‘60 e ‘70, come per esempio nell’opera di Dan Graham (il progetto ‘Homes for America’) o di Ed Ruscha (le serie ‘Gasoline Stations’ e ‘Sunset Strip’).

Le sperimentazioni fotografiche degli artisti concettuali hanno avuto un’influenza notevole, sia per quanto riguarda l’approccio che per quanto riguarda il soggetto, sui lavori fotografici più recenti: dalla vita quotidiana (esplorata per la prima volta nelle opere canoniche di Atget, Evans e Sanders e quindi reinterpretata come lato spregevole e disfunzionale delle relazioni sociali nel lavoro di Nan Goldin, Wolfgang Tilmans, Richard Billingham e altri) all’affermazione della potenza espressiva del segno fotografico: di quanto viene mostrato o nascosto nel processo di documentazione stesso. Quello che mostrano le immagini di Raffaela Mariniello – ossia la loro regola di visualizzazione – è il non visto, una visione spettrale di un territorio abbandonato, ossessionato dai ricordi di altre storie e altre vite. Sebbene i suoi titoli riconducano l’immagine alla documentaristica, per contenuto e struttura (formale, tecnico, concettuale) lasciano intendere approcci più flessibili a generici confini. È stato il recupero del non visto a fare da promessa e limite alla tradizione documentaria – come testimonia la famosa critica di Brecht ad una fotografia delle acciaierie Krupps, di cui diceva che nulla rivelava quelle diseguaglianze economiche e sociali che sottendono alle forme di produzione. La verità è uno scopo elusivo (e illusorio) del realismo documentario. Nonostante le pretese di attestare la verità, ‘l’esserci’ o la fattualità dell’immagine non sono più nemmeno la verità dell’apparenza, con tutto quello che avviene nei meccanismi del fotografare e dello stampare (per non dire delle possibilità di manipolazione dell’imaging digitale) dobbiamo cercare altrove la verità dell’immagine. La questione della politica dell’immagine, per quanto attiene a ogni pretesa di verità, va ricercata forse altrove, in un’etica dello sguardo. Per Barthes, la ‘verità’ si trova semmai altrove – nel ‘punctum’ dell’immagine: ‘si verifica nel campo della cosa fotografata come un supplemento che è al tempo stesso inevitabile e delizioso …’(5)

In alcune delle prime opere di Raffaela Mariniello, come per esempio la serie ‘Bagnoli, una fabbrica’ (1991), alcune figure spettrali si librano in volo o attraversano l’immagine scivolando, uno stivale o un guanto smesso giacciono nel terreno, allusioni al lavoro manuale o alla storia della fotografia che porta da Rodchenko a Man Ray. Più di recente, nel saggio fotografico commissionatole sulla città di Napoli (2001), o nel corpus di opere attuale, la aderenza letterale alla realtà, presente nella serie di Bagnoli, e l’estetica formale che sfiora il pittoresco, sono state sostituite da una retorica visuale più ricca e complessa sul piano connotativo. Si tratta sempre di non-luoghi, spazi abbandonati ai margini di attività industriali o sociali impregnati di malinconia, ma per la sovrapposizione di oggetti e contesti, il significato tende verso l’ambivalenza e la contraddizione. In quanto tali, e visto il ricorrere di metafore del corpo umano, essi mimano l’investimento Surrealista nell’oggetto/i del desiderio, il fascino manifestato dai fotografi Surrealisti (soprattutto Man Ray) per il Readymade e i doppi sensi e il significato simbolico nella codifica della realtà. Lo si è spesso ottenuto attraverso abbinamenti improbabili, il paradigmatico ‘incontro fortuito’ e, da come Raffaela Mariniello colloca l’oggetto/i in primo piano nello spazio che fa da sfondo, si coglie una analoga dissonanza che apre l’immagine all’azione della metonimia, alle catene di significati che la collegano a una gamma molto più ampia di riferimenti culturali.

Raffaela Mariniello non si interessa dell’effettiva specificità di un luogo – come la tradizione fotografica derivata da un’indagine topografica o da una mappatura scientifica dello spazio. I segnali geoculturali di diversità sono di gran lunga meno evidenti della qualità di forma e di atmosfera di una sensazione generalizzata del contesto. Che il soggetto sia il Galles del Sud o un porto del Mediterraneo importa meno dell’effetto della luce sull’acqua, del gioco di ombre e luci contrastanti sulla superficie o dell’interazione di forme organiche, industriali o architettoniche. C’è comunque qualche indizio che aiuta nell’identificazione: una fila di tetti e giardini, tendine a rete raccolte, un muro di pietra secca, alcune varietà ben individuabili di piante, indici di un clima particolare (caldo), un gasometro, un condominio, oggetti suggestivi di modelli di vita e lavoro quotidiani, che danno il senso del luogo – di cosa si provi a stare nel posto scelto dal fotografo per scattare la foto. Ma queste sono caratteristiche secondarie di una narrativa della dislocazione e dell’incertezza. Ma non si tratta più di immagini considerate come ‘panorami’ in senso convenzionale – la singolarità del mondo offerto alla macchina fotografica – così come non sono i tipici paesaggi nel senso della storia dell’arte. Personalmente credo che, nei suoi giri di perlustrazione prima di scattare le foto, Raffaela Mariniello non cerchi semplicemente insiemi di elementi, come per esempio il collegamento tra naturale e urbano, ma anche il modo in cui un luogo si imprime fisicamente sul soggetto – un senso di disagio e ansia, una sconnessione di forma e funzione, la perdita di abitudini – tutte cose che sovvertono qualsivoglia tendenza voyeuristica. Questi sono luoghi che sostengono il nostro sguardo e sfidano la nostra intrusione.

La dimensione temporale delle immagini di Raffaela Mariniello evoca sia la provvisorietà potenziale che la temporaneità duratura della fotografia. Come si è notato, essa scatta soprattutto nel momento in cui la luce naturale si affievolisce quando scende la sera. Di che stagione si tratti non è altrettanto chiaro: c’è qualcosa che indica il cambio di stagione di un calendario che va dall’inizio d’estate e metà autunno. E’ il lasso di tempo in cui rimane aperto l’obiettivo a scandire l’azione cronometrica, percepibile nel confondersi e ammorbidirsi delle sagome delle forme, o sulla superficie dell’acqua – tempo che passa, senza stacco, nel movimento. In una delle prime serie, utilizza la classica tecnica di ripresa al rallentatore, di Muybridge e Marey, ma la sua fotografia attuale presenta l’effetto quasi contrario all’analisi del movimento attraverso i suoi momenti costitutivi. Semmai il movimento nasconde più che palesare, mentre alberi e cespugli diventano simili a nuvole o adottano parvenze più appariscenti, l’acqua si raggela e gli oggetti in primo piano perdono di specificità e diventano misteriosi. (Altra fonte potrebbe essere quella dei fotografi Futuristi italiani Arturo e Anton Giulio Bragaglia, che si cimentarono con lunghi tempi di esposizione di figure in movimento per fissare un’impressione generale o Gestalt di azione e gestualità corporea). Con Raffaela Mariniello il contrasto tra durata e immobilità si può intendere come una metonia di forme di esperienza – dello stare nel mondo e di una vita interiore che procede in parallelo alla percezione sensoriale. In breve, lo si può vedere come artifizio per opporsi all’istantaneità della fotografia – e riportare il tempo all’indietro nell’immagine e così trattenere l’attenzione degli spettatori. Per quanto tempo ci si ferma a guardare una fotografia: un secondo o due, dieci secondi, venti, un minuto… La nostra attenzione dura in genere molto meno di quando guardiamo un dipinto – l’immediatezza e la profusione di figure duplicate, dissuade da un incontro più concentrato e prolungato. I fotografi adottano da sempre artifizi e strategie per attirare e trattenere lo sguardo dello spettatore, dettagli e precisione scientifica, estraneità, violente emozioni, grandezza, via via fino alla cornice, il montaggio, l’uso del testo ecc. tutti elementi di una ricca estetica formale e concettuale. La fotografia però (alla stregua del film e diversamente dalla pittura) ci ricorda quanto sia coinvolto il nostro sguardo, quanto la visione sia inadeguata e quanto la macchina fotografica ‘vede’ quello che l’occhio non vede. Non manca ovviamente l’inconscio – la struttura del guardare che integra l’immagine nella memoria e nel desiderio.

È tipico della vista cercare un ordine e un sistema . Quando ci sforziamo di capire il senso dei nostri mondi visivi, per quanto caotiche o disordinate possano apparire le cose, mettiamo in relazione l’ignoto con il famigliare per riuscire a collocare noi stessi e la nostra fonte primaria di riferimento: il corpo. Vediamo il corpo ovunque: intero o in parte, fattuale o metaforico, come organi interni, pelle, gesti e movimenti, azione e inerzia. Quando osservo, nella fotografia di Raffaela Mariniello, la superficie ondulata e grinzosa del banco di fango che affiora dalla bassa marea nella baia di Cardiff, o le intricate spirali di tubazioni sul molo di Palermo, o il contrasto tra l’area sterrata in primo piano con le pozzanghere, le erbacce e le pietre e i condomini ordinati, le antenne TV e i lampioni nelle strade di Valencia, la mia risposta è in parte filtrata dall’empatia e dalla familiarità fisica con i limiti e il potenziale del corpo umano. Secondo Freud, il principale rimando va ai nostri primi ricordi, le nostre prime esperienze di essere al mondo e i piaceri e i dolori che accompagnano l'infanzia. E’ allora che i confini tra l’io e l’altro, corpo e spazio, fuori e dentro, si formano e impostano l’esperienza adulta. Le rappresentazioni visive che risvegliano tali memorie hanno una presa particolare sulla nostra attenzione – percorsi che conducono in uno spazio pittorico, pareti o recinzioni che distinguono un’area dall’altra, trasformazioni della sostanza da solida a liquida o gassosa, divisioni tra interno e esterno – distinzioni che riproducono le prime esperienze di apprendimento ai tempi in cui lottavamo per dare un senso e un ordine all’ignoto e al nuovo. Lal filosofa Luce Irigary sostiene che questo periodo formativo segna la reciproca relazione tra vista e tatto, un rapporto che la filosofia occidentale ha nascosto privilegiando la vista. Per Irigaray, la metafora della luce come verità è un’idealizzazione che annienta la differenza sessuale. Nella sua narrazione, la luce è strutturata, ‘tattile’ e il senso della vista è profondamente coinvolto in quello del tatto, una formula che comporta una relazione corporea con il mondo invece che una costruzione di un soggetto incorporeo e di un obiettivo che contempla il campo visivo.(6) Quel che voglio dire è che l’emozione delle immagini di Raffaela Mariniello, come accade per la maggior parte delle opere d’arte che catturano la nostra attenzione e permangono nella memoria, è un ricordo contrario alla presenza corporea, che prescinde dalla sua (letterale) assenza dall’immagine: è riconoscimento ed estraneità, rassicurazione e incertezza, forma e vuoto, movimento e inerzia, oscurità e luce.

‘Tra il fotografo e il suo soggetto deve rimanere una distanza’ asserisce Sontag (7), entrando nel dibattito che ha sempre messo in discussione il voyeurismo del rapporto fotografico. Inevitabile ogniqualvolta l’obiettivo è puntato sul soggetto umano, individuo o ‘massa’, come intrusione ed espressione di un discorso di potere. Ma cosa dire della dimensione etica di altri generi di rappresentazione fotografica, come in particolare il paesaggio? Al riguardo il rapporto con lo sviluppo e la diffusione con il turismo di massa è la prova più evidente delle conseguenze socio-economiche del desiderio di possesso. La Kodak era solita reclamizzare eventuali luoghi su cui far posare lo sguardo della macchina fotografica e anche oggi i belvedere sono dotati di istruzioni dirette al fotografo dilettante su dove mettersi per cogliere la panoramica migliore. Davanti a nessun paesaggio, naturale o urbano, selvaggio e desolato oppure ordinato, è facile resistere alle lusinghe del pittoresco, del sublime, del simbolico o del moralista. Persino i progetti partiti come documentazione sistematica di forme, funzioni o modi di vivere – Atget, Robert Frank, i Bechers – sono visti proprio per la loro stessa indicizzazione come ricordi di ciò che è andato perduto; frammenti di significati alla deriva, che vogliono esprimere un ‘passato’ generalizzato (nostalgico, sentimentale), oppure collegato a specifici racconti. È stato Walter Benjamin a vedere in Atget non solo il precursore della fotografia Surrealista, ma anche un corpus di opere che, per la sua ripetitività, ordinarietà e assenza di esseri umani, aveva distrutto l’aura che avvolge l’oggetto: ‘la città in queste fotografie sembra svuotata, come un alloggio che non abbia ancora trovato un nuovo inquilino.’ (8)

Come i predecessori, Raffaela Mariniello crea delle serie – la città di Napoli, i porti del Mediterraneo, Cardiff – e le sue immagini evocano per lo più la vicinanza delle zone industrializzate e l’anonimato di ciò che è trascurato, le forme di produzione e i loro detriti comuni al sistema economico globale. Analogamente, l’habitus domestico viene trattato solo di rado nei dettagli, ma piuttosto rappresentato come una massa di unità identiche che formano un condominio o case a schiera. La citazione del nome del paese e della città d’origine – Valencia, Napoli, Palermo, Cardiff – non fa nulla per dissipare l’impressione di un’esistenza appartata e ordinata, anzi la didascalia potrebbe alludere anche a prigioni o caserme, e l’unica discontinuità di questo regime dell’ordine è costituita da due fotografie di case a Penarth Marina, una delle quali ritrae un interno. Ma anche in questo caso la rigida geometria delle tendine a rete e il calorifero smentisce ogni ipotesi che si tratti di un gusto casuale o personalizzato, ma presuppone piuttosto l’identica disposizione in ogni appartamento nel caseggiato.
Infatti i particolari, che interrompono ciò che altrimenti altro non sarebbe che l’ortodossa retorica che descrive i costi della modernizzazione industriale, sono del tipo più aberrante. Crepe nel pavimento e macchie sul muro. Erbacce fiorite a profusione lungo una strada o al limitare di una proprietà, il luccichio argenteo di una pozzanghera di notte; corde e ferri abbandonati sono l’ornamento del molo di Bari; un muro di pietra crollato alla periferia di Beirut; una montagna di un qualche materiale denso e scuro, che ingombra sinistro il primo piano del porto di Cardiff o il delicato intreccio di filo spinato e di rete metallica attraverso la baia; un motorino solitario, fuori luogo al riparo sotto lo scafo di una barca all’esterno di una fabbrica di Atene; una struttura misteriosa, una specie di tavolo di cemento, nel mezzo di prati e cespugli a Siracusa e una strada accidentata che, attraverso un terreno invaso dagli arbusti, conduce a una raffineria, sono tutte sovrapposizioni suggestive di infinite possibilità narrative. Ma sono immagini che raccontano anche una storia sulla fotografia: sulla macchina fotografica come apparato tecnico e sociale, sulla fotografia come forma di geometria proiettiva molto vicina al sistema prospettico della rappresentazione (come testimoniano le numerose immagini di Raffaela Mariniello che ‘mettono in scena’ o accompagnano lo sguardo dentro uno spazio pittorico), come un rapporto privilegiato con il reale (per dirla con Christian Metz ‘un taglio dentro il referente’) (9) e come espressione del mondo visibile che riesce ancora ad attirarci con i suoi misteri e le sue rivelazioni.

La fotografia: impronta e strappo

Achille Bonito Oliva

La storia dell'arte ci ha abituato a considerare la sua produzione come una pratica soggettiva dell'occhio che piega a propria immagine e somiglianza il reale, mediante gli attrezzi del linguaggio. L'immagine è sempre la conseguenza di una piega, di una torsione dell'occhio intorno al proprio campo visivo, di un movimento irrimediabilmente soggettivo e affettivo.
La fotografia invece ha introdotto un procedimento anaffettivo, una mentalità che sembra meglio fare il calcolo delle cose e strappare alla realtà la pelle. Un luogo comune assegna alla fotografia il luogo di una crudele oggettività, il senso di una pratica chirurgica che seziona, taglia e preleva il dettaglio dalla rete di relazioni con il mondo.
La distribuzione dei ruoli assegna quindi all'artista il posto dello sguardo eccentrico ed al fotografo quello dello sguardo statistico, all'arte il privilegio di assecondare la malattia della soggettività e alla fotografia il compito di sviluppare l'impossibile atteggiamento dell'impassibilità e della neutralità.
La fotografia capovolge questo luogo comune adoperando rigorosamente gli strumenti del linguaggio fotografico.
La fotografia non è casuale e istantanea, non è il risultato di un raddoppiamento elementare, bensì di una messa in posa che complica e rende ambigua la realtà da cui parte.
Raffaela Mariniello opera attraverso la messa a punto di momenti operativi molteplici, secondo il progetto di una scena che va prima costruita e poi fermata dall'occhio fotografico. Ora l'occhio accetta la malattia, l'introduzione di un immaginario che riesce prima a disporre le cose secondo un rigore spaziale direttamente collegato alla possibilità del risultato fotografico, e poi a catturarle mediante l'impiego di un'ottica specifica.
Finalmente la fotografia di Raffaela Mariniello con la serie di cartoline “Souvenirs d'Italie” a colori, assume l'artificio di preordinare la realtà e di cogliere l'evento senza sorpresa e improvvisazione, ma con l'attesa di un'immagine che rispecchia affettivamente una visione soggettiva.
Il mondo come perdita della vicinanza, nostalgia di un erotismo che nemmeno l'arte può ricostruire ma soltanto rappresentare mediante l'utilizzazione della distanza: questa sembra essere la filosofia della fotografa napoletana.
Il pathos della distanza presiede la sua opera che riprende questo concetto nicciano mediante la citazione di strumenti di osservazione oscillanti tra analisi e sintesi. Dimensioni derivanti entrambe dalla coscienza metalinguistica dell'arte, la consapevolezza di una presenza, di un diaframma costituito dal linguaggio che permette di denominare le cose, ma non di possederle.
Nominare significa osservare, osservare una distanza indispensabile per avere una visione del mondo e controllarlo. Il linguaggio significa dunque controllo, capacità drammatica di dominare ogni incongruità per raggiungere la conoscenza.
In Raffaela Mariniello la fotografia e il video sono conoscenza e nello stesso tempo perdita, condizione ambivalente tra senso delle cose e d'impossibilità di riprodurle linguisticamente. Da qui l'adozione iconica delle cose e della visione quasi dall'alto. La consapevolezza di una necessità che aiuta ad avere uno sguardo ossessivo sul mondo e nello stesso tempo l'impedimento di un attraversamento totale della materia e del suo spessore.
Lo sguardo che domina la visione utilizza un modo convenzionale per mettere in scena l'essere tra le cose e con le cose.
La fotografia di Raffaela Mariniello spesso utilizza la visione dall'alto proprio nel senso affermato da Goethe dell'ironia come passione che si libera nel distacco. Così noi abbiamo immagini quasi cinematografiche che contraddicono la loro intimità attraverso la capacità descrittiva di una vita quotidiana fermata dalla fotografia.
Il distacco nasce dall'ingorgo di un linguaggio che costruisce un assedio alla realtà ma non si illude di potersi identificare con la vita. In questo senso la visione si sposa con quella letteraria e nello stesso tempo estremamente figurativa che descrive meticolosamente e metafisicamente una realtà quale occasione di pura catalogazione.
Raffaela Mariniello costruisce le sue camere (per foto e video), macchine da fermo di uno sguardo dall'alto onnipotente ed infantile capace di dominare grandi territori dove la vita pulsa nei suoi particolari e dettagli. Tali caratteri diventano la struttura visiva di un sistema astratto eppure concreto del vedere, analisi descrittiva e sintetica per qualità di uno spazio concentrato dentro i confini di una visione labirintica e nello stesso tempo familiare.
La fotografa adopera la stessa civile ipocrisia della convivenza descritta dal video, utilizza convenzioni che rappresentano e nello stesso tempo negano la rappresentazione tra astrazione e figurazione. Oscilla liberamente con piacere e dolore costruendo immagini presenti ed allusive, vicine ed anche distanti.
La vicinanza è dettata dalla scelta dalla convenzione visiva che afferma e conferma la precisione dello sguardo. La distanza è rappresentata dalla filosofia dello sguardo stesso che conosce la sua possibilità e contiene anche la memoria di un contatto ormai impossibile da realizzare e ricostruire.

Più che Borges la fotografia italiana ricorda quella di Bioy Casares che nell'invenzione di Morel racconta di un fuggiasco che per sfuggire alla polizia si rifugia su di un'isola. Qui egli osserva nascosto ed appartato la vita, che vi si svolge, pubblica e privata. Alla fine scopre di trovarsi di fronte ad una vita irreale riprodotta da una sorta di sequenza cinematografica suscitata da una macchina, mossa dalle maree, nascosta nei sotterranei del palazzo, che rappresenta ossessivamente la vita trascorsa sull'isola.
La fotografia di Raffaela Mariniello utilizza lo stesso meccanismo quello di un linguaggio che ha bisogno della verosimiglianza, della presenza di una visione essenziale capace di autorizzare l'immagine, di sdrammatizzare il tutto a favore di un presente figurabile giustificato dal linguaggio.
Nelle cartoline di “Souvenirs d'Italie”, il genius loci trova il suo riconoscimento e la sua applicazione. Riesce a tenere l'ambivalenza della doppia presenza mediante la costruzione di un'immagine cordiale e nemica insieme, ma sempre mediata dalla riconoscibilità dei luoghi storici e naturali.
Perché la foto è cordiale e nemica nello stesso tempo. Infatti, per descrizione essa sembra darci il controllo e la conoscenza di un territorio ma anche l'accesso specifico. La mappa galleggia nell'astrazione di una geometria fatta di linee e punti di ancoraggio, nello stesso tempo generici.
La fotografia vista dall'alto produce il sogno del possesso, ma non il controllo reale del territorio. Ci fa vedere tutte le possibilità di fuga, sovrapposizioni, occlusioni e spostamenti, ma non quelle concrete e felici dello spazio e del suo abitare.
Abitare il mondo, ecco il problema che occupa la camera dello sguardo attrezzata dalla fotografa che riconverte la sensazione nel controllo iconico, di una visione che forse conferma ogni impossibilità, in quanto permette di controllare e preventivare ogni possibilità di movimento.
Il pathos della distanza viene esorcizzato dalla Mariniello che adopera le forme per riconoscerle ed adoperarle come strumento di analisi e di sintesi. Vedere non significa sguardo superbo significa riconoscere l'artificio dello sguardo figurativo teso sempre verso l'astrazione. Astrarre come approfondimento e sottrazione, discesa e risalita dentro il cuore dell'immagine.
Il linguaggio fotografico parla la terza persona della forma che crea una condizione di resistenza e di impenetrabilità anche di fronte alla contemplazione ammirata dello spettatore.
Ecco allora il bisogno di garantirsi mediante la macchina del linguaggio: mappa, toponomastica o sguardo a distanza.
La struttura dell'opera acquista i connotati di un linguaggio di lunga tradizione, quella di un'astrazione (l'immagine fotografica senza persone) e di una figurazione nobilitata nel video da molte presenze di varia umanità. In questo caso è giustificata e sostenuta dalla cordialità di scene dolci facilmente riconoscibili e rinvianti a pratiche comuni del sociale.
Far lievitare lo sguardo, ecco il compito della fotografia che realizza opere tangibili di controllo e nello stesso tempo di vertigine. La convivenza dei due momenti diventa il compito dell'artista che non cerca il riparo ma semmai la possibilità, attraverso l'esperienza creativa, di rappresentare la doppia polarità.
Non figurativa ma figurabile è l'immagine della Mariniello, al limite tra riconoscimento e sviamento, affermazione e perdita di senso. Questa immagine rappresenta il tragitto del significato dalla sua fondazione alla sua astrazione, un percorso realizzato con l'astuzia di un gioco linguistico estremamente controllato.
Un controllo che nasce naturalmente non dall'abilità tecnica, ma dalla ansietas, di cui parlava Marsilio Ficino che utilizza ogni sicurezza per rappresentare, e naturalmente riconoscere, le difficoltà dell'esistenza.
Per questo la Mariniello non ha esitazione, naviga con sicurezza morale nei territori della vita, in quanto portatrice di un ordine formale che giustifica il gioco e garantisce il risultato.
La fotografia di Raffaela Mariniello protegge il proprio diritto a dichiarare la perdita ed il proprio lutto definitivo, mediante il comportamento adulto dell'esperienza creativa, fatta di disciplina e lucidità, tensione e controllo, coazione e differenza. La distanza dell'arte garantisce l'estraneità del risultato e nello stesso tempo la costante fedeltà a se stesso, l'incolumità precaria in un mondo che comunque rimanda sempre ad un'altrove, rintracciato dalla fotografia, impronta e strappo della realtà, conservata nelle inquadrature tutte italiane (per memoria, spirito formale, simmetria, proporzione e armonia), che ci consegnano un panorama creativo assolutamente originale.

Viaggio in Italia. L'arcipelago dell'immaginario

Giovanni Fiorentino

Funziona più o meno come un'isola la fotografia: presenza assenza, conferma eppure distanza, frammento e altrove, comunque esperienza del viaggio nello sguardo. Che sposta il mondo e lo ridisegna materializzandolo in immagini. Le fotografie hanno storicamente reso visibile il palazzo mentale dell'immaginario e il sogno moderno dell'isola si è fatto concreto per l'Occidente con l'esperienza mediale della fotografia. Se non ha inventato il viaggio, la fotografia è però stata parte determinante nel rielaborare il Grand Tour e nell'elaborare e inventare il viaggio turistico e di massa.

La fotografia di Raffaela Mariniello nel suo insieme è un arcipelago che rovescia i canoni dell'immagine di massa giocandoci apertamente: capovolge il paradigma del viaggio in Italia che insegue e produce la città come matrice di immagini, lavora sui confini dell'immaginario collettivo reimmergendolo nell'esperienza turistica del presente, rende l'occhio macchina una sorta di stile di vita, lasciando che etica ed estetica si sovrappongano.

Napoli, prima di tutto, nell'esperienza di un occhio fotografico aperto e ibrido allo stesso tempo, ma purissimo, che si è costruito intorno alle radici e alla sua città. Poi l'invenzione di un viaggio lento e nuovo dell'occhio, una sorta di scandaglio visivo che attraversa l'Italia e le tappe storiche del Grand Tour. Esplora e vive artificialmente – con il suo abitacolo fotografico – il mondo italiano del turismo di massa, finanche quello più rassicurante dei villaggi turistici o delle visite radioguidate a Porto Cervo, lo produce e riproduce, secondo formati e impaginati diversi, rimontando e installando poi negli spazi espositivi, come nelle pagine di questo libro, un'accensione immaginaria sul presente italiano. Dal bianco e nero di Napoli che rappresenta il lavoro di una vita, dall'eterno movimento pendolare tra il centro storico e le periferie partenopee, si concentra ora sulla capitale riconoscibile e riconosciuta del viaggio in Italia, dell'immaginario di massa e dei mass media, insegue il fantasma del consumatore delle piazze turistiche, dotato di occhio fast food, istantaneo prensile e vorace, che si muove in un presente globalizzato sciamando come nello spazio di un outlet o di un grande centro commerciale.

In questa sorta di souvenir tour il brand Italia, con i suoi loghi storici, la sua immagine coordinata, arretra sullo sfondo. L'icona, – arte, natura, storia – matrice delle sue infinite riproduzioni (Holmes 1859-63) lascia il posto, al centro dell'inquadratura, alla giostra colorata delle cose, ad un lunapark che rende conto del presente e che potrebbe essere collocato appunto in qualsiasi centro commerciale. Questo sguardo potrebbe avere certamente valore sociologico, antropologico, storico, ma non si può ridurre a un'inclinazione fotografica funzionale alle scienze umane. Raffaela Mariniello usa l'inquadratura in maniera deliberatamente centrale, secondo la maniera pittorica di Piero, persegue un continuo fondersi delle luci artificiali e naturali nel districarsi dal buio, rivisitando una tradizione espressiva che attinge fino a Caravaggio, cerca il colore artificioso ed eccessivo dei consumi, iscritto nel Pop come nell'iperrealismo americano sovraesponendolo, o sovrapponendolo, alla monocromia degli sfondi, usati come quinte teatrali dismesse. Infine, esplorando esteticamente – e, in un connubio indissolubile, eticamente – la natura laterale e contraddittoria, vitale della fotografia.

Siamo in un territorio che immediatamente rimanda a fenomeni del consumo globale largamente sviluppatisi nell'ultima parte del Novecento e che stanno tra la “mcdonaldizzazione” e la “disneyzzazione” con in più la caratterizzazione sociale, mediale e politica tutta italiana dell'ultimo ventennio. Ma l'impatto sulfureo che avvince l'occhio dello spettatore alle fotografie, che oscilla in bilico sul contraddittorio violento tra cornice italiana e primo piano da souvenir tour, restituisce una profondità all'immaginario in fuga, da tempo e per l'occhio massa sbiadito sullo sfondo (Augé 1997), ricomponendo i fantasmi delle macerie che ci circondano.



Napoli, un deserto da reinventare

Guardando indietro: la vocazione quotidiana allo sguardo fotografico di Raffaela Mariniello è dedizione assoluta, come lo è stata la sua ispirazione a Napoli (Fiorentino 2010).

Comincia a fotografare negli anni del terremoto irpino, al principio degli anni Ottanta, sedotta impossibilmente dal reportage. La sua attitudine fotografica porta altrove. Si avvicina alla scena meno visibile della città allontanandosi dal centro storico: segue la durata piuttosto che l'istante, l'architettura e la trasformazione degli spazi in periferia. Frequenta il Centro Direzionale che cresce e si sviluppa, una palestra fatta di saliscendi nei cantieri e di una fotografia essenziale che avvia la ricerca di una cifra personale. Il primo lavoro compiuto è dedicato alla fabbrica dell'Italsider, a Bagnoli, immersa nelle luci della notte. L'Italsider è di per se una fabbrica teatro, un misto di realtà e inferno a cielo aperto. Qui matura completamente la grande attenzione per la luce, o meglio per il buio, per la luce che si innesta e si ridisegna nell'ombra, per quella serie di luci crepuscolari e artificiali che entrano in relazione tra loro e con l'ambiente in ore particolari del giorno, modificandolo allo sguardo. è un'attenzione che si farà strada a partire dalla scena reale ma che la fotografia di Mariniello articola e lascia sedimentare ed esplodere come accadrà per altri versi nella staged photography.

Dal luogo, ai luoghi. Tra gli spazi della vita quotidiana nel centro storico – lo studio alle rampe Brancaccio e la casa alle porte dei Quartieri Spagnoli – e le periferie estreme della città c'è una relazione profonda nell'essere fotografa della Mariniello. Un flusso energetico e continuo che si nutre del viaggio incessante, e che mette in relazione tra loro il corpo, l'occhio, la macchina e la città. La locomozione, diventa, ancora prima dello sguardo, uno strumento di riappropriazione e conoscenza produttiva (De Certeau 1980). Raffaela Mariniello attraversa Napoli di continuo, riabitandola a piedi, con i mezzi pubblici, in tram, da piazza Vittorio a Poggioreale. Piede e occhio, per venticinque anni solcherà quel territorio di nessuno che è la periferia napoletana in orari improbabili, anche di notte, con un'apparecchiatura ingombrante, statica, il cavalletto, la linof a lastre 4x5: tra Bagnoli, Scampia e i Campi Flegrei, attraverso San Giovanni e fino ai primi paesi vesuviani, con un ritorno quotidiano al porto, fino al limite di Vigliena. Per fermare un paesaggio che si presenta in continuo cambiamento e diventa palestra quotidiana ed evolutiva per l'occhio. Prima dello scatto, precede una preparazione lenta e meticolosa: la gestazione di un'immagine vive di paura e inquietudine, di coraggio speso sul territorio dei conflitti privo dei contendenti, in orari che segnalano il pericolo dei territori di confine. L'adrenalina del reportage viene compensata da una tensione lenta e costante che costituisce una sfida per la riappropriazione degli spazi, per lo scandaglio della camera oscura che frequenta le viscere dell'uomo.

Tra gli anni Ottanta e Novanta questo viaggio di frontiera elabora una sorta di installazione quasi interamente dedicata alla città, tradotto infine nel libro Napoli vedute immaginarie (2001). Ogni immagine è un solco denso, una incisione visiva, lavora sull'attesa, sul tempo, sulla durata, crea un realismo metafisico che vive in un bianco e nero contaminato dalle vibrazioni della luce. Si ricompone poi in un'ideale quadreria a parete dove ogni fotografia compone un tassello del mosaico – i container, le catene, tubi o griglie, pietre e tralicci, viadotti, gru, barche e resti industriali, lo scheletro di una sedia in mezzo al mare, le luci naturali e artificiali – in un montaggio e una sospensione che prova a riscrivere la città. C'è un'assenza invadente dell'uomo che domina le immagini, le strutture tristi dei confini trasfigurano in corpi di fabbrica spettacolari, è il corpo periferico di Napoli a diventare drammatico e bellissimo, metafisico ed infernale al tempo stesso. La sua opera riscrive Napoli attraversandola con lo sguardo ai bordi, in silenzio, disabitata e in bianco e nero – Baudrillard sosteneva che era l'unico modo di riappropriarsi della città (1995) –: consente di attraversare la città deserta e quindi riabitarla.

Viaggio in Italia. Accensioni sull'immaginario

Giovanni Fiorentino

Il viaggio in Italia riparte da Sud. Si muove, e non potrebbe essere altrimenti, da Napoli. Il progetto nasce nel 2006: Mariniello si sposta dai margini delle periferie al centro storico delle città italiane, dal bordo meridionale del sé al cuore delle capitali per un souvenir tour Italia che dura cinque anni, includendo stazioni sciistiche rinomate e capitali estive della Seconda Repubblica. L'occhio macchina – lo stesso – dilatato e potente, con il medesimo dispositivo, il banco ottico ingombrante, lento, questa volta acceso iperrealisticamente dal colore degli esotismi globalizzati, parte da Napoli: piazza Plebiscito, piazza Municipio. La macchia policroma dei palloncini gonfiati ad elio in primo piano, al centro, la chiesa di San Francesco di Paola e il colonnato che arretrano alle spalle. Un castello di cartone monocromo sullo sfondo, il Maschio Angioino, e in primo piano un camioncino che vende “la porchetta romana”. I colori da luna park delle luci al neon, in testa la scritta Pub Barry White. Il contrasto è violento, inverosimile, come lo può essere solo per l'inquadratura fotografica che limita e ferma, piuttosto che per la fluidità del reale. Sullo sfondo l'icona che identifica il luogo del delitto è ridotta a quinta teatrale. L'immagine che ha conquistato il suo posto nell'immaginario collettivo lascia spazio alla vita e alla pratica quotidiana dei consumi, anche quelli alimentari. Il terzo occhio della fotografia, coincidenza surrealista degli opposti, accende un immaginario altro, assieme durata e velocità, sfondo e primo piano, monocromia e colori, che evidenzia la trasformazione quotidiana dei luoghi controllati e abitati dai flussi turistici.

Rispetto alla cronaca irriverente di un reporter dei nostri tempi come Martin Parr, rispetto all'occhio organizzato della massa che si muove assecondando il trascinamento delle immagini mediali – la “città planetaria” di Augé – e la ricerca dello scatto, vorace, infinito, seriale, la scatola ottica della Mariniello si sposta: rallentando si ferma. La filosofia che presiede l'atto, è un'attesa silenziosa per ricomporre e montare la materia incandescente del presente (von Drathen 2004). La transizione nell'eternità dell'istante fotografico manifesta tutte le incongruenze del viaggio, i contrasti inverosimili e alteranti del presente, ripercorre politicamente ai bordi l'immaginario occidentale costruendo una nuova ipotesi di frontiera intorno al souvenir tour. Mette in scena il consumo, o almeno una delle tendenze maggioritarie del caso, e lascia immaginare un destino non distante da quello costruito dalla multinazionale Buy'N'Large Corporation nella parabola cinematografica animata – Wall-e – firmata Pixar, più che Disney: corpi ridotti a soli occhi incollati al display e bocche che vivono di soli schermi.

Nella Parigi capitale del XIX secolo (Benjamin 1982), le vetrine anonime fotografate da Eugène Atget sono porte sul tempo. Aprono, dilatando lo sguardo, la memoria e la fantasmagoria della metropoli ottocentesca. Gli oggetti di Raffaela Mariniello, anche quelli delle videofotografie fisse che scorrono in loop, la Chocolate Virgin Mary, le girandole tricolori, la lampada viaggiante, le parole del consumo turistico, aprono le porte ai fantasmi del presente che si agitano e svuotano i centri storici della città italiana, quella del topos, dell'icona immaginaria del Grand Tour, ne rivelano la contiguità, la prossimità alle rovine. Il Duomo di Milano, Piazza della Signoria a Firenze, il Ponte dei Sospiri a Venezia, piazza Navona a Roma. La vetrina dei passage è sostituita da palloni e giostre che raggrumano luce e colore, dal camioncino degli ambulanti, dalle forme di plastica dei souvenir, dalle insegne artificiali al neon, dai cartelloni pubblicitari, dall'immensa mucca kitsch che invade il porto di Capri, dal tricolore di Cortina, dall'effetto impaccamento dell'Italia in miniatura a Rimini. A Venezia è una enorme edicola a troneggiare al centro di piazza San Marco nel suo richiamare la Venere degli stracci di Pistoletto, e nella stessa città è la folla informe a scivolare da un ponte all'altro ed occupare il centro della scena. La stessa massa in movimento che peregrina di piazza in piazza fino alla fontana di Trevi o davanti al Duomo di Lecce, flusso dilatato e inafferrabile dei turisti che si trasforma ancora in colore e luce. Più che la distanza e la diversità, il turista sembra alla ricerca di immagini e di un luogo rassicurante ma colorato, dorato, speziato. Con la tropicalizzazione del clima, Raffaela Mariniello fotograficamente registra e immagina una tropicalizzazione, una sorta di verniciatura adescante che vede insistere luci naturali e qualità delle luci artificiali – blu elettrico, verde acido, indaco, rosa shocking – . Non è l'Italia in miniatura che pure c'è. è invece il viaggio in Italia dell'occhio, dove l'ironia entra fino a un certo punto. La sua Italia è pensata come un parco a tema che incrina le sicurezze e genera nello spettatore un effetto spiazzante.

Questa cartolina, dove al contrasto bruciante tra riproducibile e unico fa sponda l' indistinto artificiale, non tranquillizza affatto, inquieta. Il passaggio dai margini al centro della città, porta ad una diversa periferia dell'esistenza, dove il non sense è il vero stabilizzatore della stessa.

Sono presenze che appiattiscono sul presente la profondità di natura e storia, rendendole artificio e finzione, sfondo impallidito di un videogioco. Il fantasma del flanëur, il soffio nomade, vitale e itinerante del viaggiatore metropolitano, è sostituito dai fantasmi disidentitari delle masse in transito.




Riferimenti bibliografici

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Bagnoli, una fabbrica

Benedetto Gravagnuolo

Sembrano immagini di un habitat lunare, metafisico, postumano... lontane mille miglia dalla città solare raffigurata in tanta vecchia e nuova oleografia su Napoli e i suoi incantevoli dintorni. Sono invece foto recenti e ravvicinate di uno scenario urbano periferico, a loro modo poetiche nel glaciale nitore di una vivisezione del ventre meccanico di una fabbrica, troppo nota ed ingombrante per non essere riconosciuta a prima vista anche da chi solo per caso, in un giorno qualsiasi, ha attraversato Bagnoli nell'ora del tramonto. Quando le luci elettriche cominciavano ad accendersi e lentamente le spire del fumo si avvolgevano sullo sfondo di tramonti artificiali, filtrando nella fuliggine chimica l'arcaica quiete visiva di Nisida e Coroglio. Ora tutto questo è finito, forse, per sempre, La grande balena industriale verrà rimossa. Il 20 ottobre del 1990 è stata ufficialmente annunciata la decisione di spegnere gli ultimi altoforni ancora attivi dell'Italsider e le più recenti ipotesi programmatiche preannunciano l'imminente «delocalizzazione» del colosso siderugico in altri lidi. Ricordo ancora i volti degli operai di Bagnoli e le parole pronunciate a caldo davanti alle telecamere televisive in quel gorno fatidico; parole e volti nei quali il ritegno nella presa d'atto della sostanziale chiusura di una fabbrica e la volontà di restare lucidi nella comprensione dei fattori che avevano condotto a quell'esito lasciavano a tratti trapelare l'attaccamento emotivo per l'oggetto perduto. Non solo la legittima preoccupazione di fronte alle incertezze di nuove prospettive occupazionali; non solo il comprensibile orgoglio nel non rinnegare le ragioni che avevano condotto a lunghi anni di lotte sindacali a difesa del complesso industriale di Bagnoli, e più in generale del ruolo produttivo di Napoli; ma qualcosa di più o di diverso si annidava nel tono di quelle frasi spezzate.

«Qualcosa» di simile mi sembra scorgerlo anche nelle foto di Raffaela Mariniello. Il fascino introverso di questi fotogrammi credo che vada stanato in un sentimento «raggelato» nella perfezione tecnica, ibernato nel calcolo sofisticatissimo di ogni dettaglio: dal taglio dei quadri ottici, ai tempi delle riprese, al lavoro paziente di sviluppo delle immagini. Nulla è lasciato al caso. Ogni «cosa reale» viene alchemicamente trasfigurata in una visione innaturale e pur vera. Anzi, di una verità lampante e acidamente lirica. Come uno specchio deformante che accentua ed esalta la fisionomia distintiva di ciò che in esso si riflette, così questa sequenza fotografica rivela ai nostri occhi distratti la visione di un microcosmo industriale per come esso si mostra ad una osservazione disincantata, in tutta la sua bellezza involontaria e in tutta l'allucinante violenza della devastazione ambientale. Un muro di contenimento, una barriera antivento, un carro-ponte, un camion dai vetri luridi di sabbia, una colata incandescente di acciaio liquido, le gru che affiorano da cumoli di detriti metallici, un guanto da lavoro caduto nel fango, una suola di scarpa gommata, l'ombra di un uomo su una parete di mattoni sporca... ed altro. Si può amare questo paesaggio d'acciaio? Si può rimpiangere l'Italsider? Sembrano domande retoriche, alle quali tuttavia le foto di Raffaela Mariniello non vogliono rispondere. Nell'eloquenza del linguaggio visivo, queste immagini si limitano a fissare per sempre sulle lastre, con distacco analitico, la luce distillata di una steeltown il giorno prima del naufragio senza nostalgia ma anche senza astio. Il loro valore estetico sta - aldilà dell'oggetto rappresentato - nella maniera di rappresentare le cose trovate. La fabbrica e la spiaggia di Bagnoli non sono altro che un pre-testo per una ri-scrittura interpetrativa di un ambiente (comunque, piaccia o no) costruito dall'uomo.
Se confrontate, tuttavia, alle foto «ufficiali» commissionate dall'azienda nei primi anni Cinquanta, ci si accorge che l'ottimismo è passato. La fede nelle magnifiche sorti e progressive dell'industria si è dissolta. Nell'aria si addensano nuvole di dubbi. Ma, per provare a rispondere a questi interrogativi, bisogna fare un passo indietro. Bisogna risalire ai primi anni del secolo, quando con sorprendente disinvoltura fu impiantato in quel luogo di straordinaria armonia paesistica il primo nucleo dell'acciaieria Ilva. Com'è noto, fu a seguito della legge speciale del 1904 - varata sotto la spinta dell'inchiesta Saredo (1902) e delle tesi di Francesco Saverio Nitti (in buona fede irogressiste) su L'avvenire industriale di Napoli - che venne trapiantata nella periferia occidentale dell'excapitale borbonica una grande acciaieria ad emulazione dei complessi siderurgici tedeschi dei Krupp, nonché di quelli di Genova, di Terni e più in generale dell'Italia del centro-nord. Il settore siderurgico era considerato l'industria leader del tempo, ed alla installazione dell'Ilva alle porte di Napoli erano connesse anche molte speranze sull'indotto produttivo nel territorio urbano circostante.
E' bene tuttavia precisare che quella «Legge recante provvedimenti per il risorgimento economico della città di Napoli» (dell'8 luglio 1904, pubblicata nella Gazzetta ufficiale del Regno il 16 luglio 1904 n. 166) non indicava affatto la zona di Bagnoli per tale destinazione d'uso, anzi sottindendeva nella più consolidata area industriale orientale l'ubicazione preferenziale per le stesse acciaierie. A far cadere la scelta sulla «radiosa plaga flegrea» furono prevalentemente i calcoli di convenienza aziendale dell'Ilva (un trust formatosi a Genova nel febbraio del 1905), che mise in conto la disponibilità di vasti terreni liberi a basso costo (circa 1.200.000 metri quadri con un fronte sul mare di oltre 500 metri). Valutò inoltre gli innumerevoli vantaggi offerti dalla vicinanza col mare (e, primo fra tutti, l'opportunità di realizzare in proprio un approdo per il carico e scarico sia della materia - prima che dei prodotti finiti), nonché dall'imminente realizzazione della linea ferroviaria «direttissima» Roma-Napoli (varata nel 1904), con il già previsto - scalo merci a Fuorigrotta.
Ciò che invece passò in secondo piano - non solo nel disegno aziendale, ma sorprendentemente anche nell'opinione pubblica dominante - furono gli irreparabili danni ambientali che inevitabilmente avrebbe creato tale fabbrica all'ameno contesto paesistico nel quale era ancora immerso il casale di Bagnoli nei primi anni del secolo. Le poche voci di dissenso (tra le quali spicca per competenza l'opinione dell'ingegner Francesco De Simone, autore nel 1914 di uno dei più lucidi piani regolatori formulati per Napoli nel nostro secolo) rimasero inascoltate e talvolta schernite come attaccamento nostalgico a una «Napoli da cartolina». Eppure, se si escludono tre piccole aziende (e, per l'esattezza, quella di prodotti chimici impiantata a Coroglio nel 1853 da Ernesto Lefevre, e le due vetrerie di Vincenzo Damiani e Melchiorre Bournique), la zona mostrava ancora con evidenza tutte le affascinanti potenzialità di uno sviluppo urbano coerente alla naturale morfologia di una verde campagna separata dal mare da una lunga spiaggia.
I lavori di prosciugamento del Lago di Agnano (avviati nel 1865 e portati a termine nel 1870) avevano definitivamente bonificato l'area dai residui, di acque malsane, e già nel 1887 il dottor Giuseppe Schneer vi aveva piantato il primo seme della stazione termo-minerale destinata a raggiungere sulla soglia del nuovo secolo le vette qualitative del grande Albergo delle Terme di Agnano progettato in eleganti forme liberty da Giulio Ulisse Arata, ed immerso in un vasto parco alberato. Nel luglio del 1889 entrò in funzione anche il primo tratto della ferrovia Cumana, che aveva comportato l'apertura di un nuovo traforo della collina di Posillipo (1885) in alternativa tanto alla «Crypta neapolitana», quanto alla cosiddetta «Grotta di Seiano» che fin dall'età romana avevano congiunto più direttamente Napoli ai Campi Flegrei con cunicoli ricavati nella roccia collinare. E pochi deceni dopo il 24 aprile 1925, verrà aperta la nuova galleria detta «Laziale» (dal nome del gruppo finanziario che la realizzò).

Certo, l'isolotto di Nisida, aveva già visto travisare il suo originario alone mitico dai cinquecenteschi commerci «illeciti» del porto Paone, dal seicentesco «Lazzaretto sporco» di Chiuppino, nonché dall'ottocentesco «Bagno Penale», progettato da Giuliano De Fazio nel tipo perfetto di un carcere panottico sul sedime della preesistente torre d'avvistamento voluta nel XVI secolo dal viceré Don Pedro de Toledo. Così la «piccola isola» era stata destinata malgré soi a luogo di segregazione e di ergastolo: una sorte avversa, del tutto inadeguata al suo valore, che persisterà fino agli anni Venti del nostro secolo. Ciò nonostante una lontana eco del canto omerico risuonava ancora tra le onde del mare (come dimostrano gli studi di Victor Bérard su Les navigations d'Ulysse, pubblicati a Parigi nel 1929, ma avviati, per quel che riguarda Nisida, proprio nei primi anni del novecento). Senza contare che le premesse per una moderna e razionale rivalutazione della presunta «Terra dei Ciclopi» v'erano tutte.
Non va dimenticato, d'altronde, che la vocazione residenziale e marinara del sito era stata già colta ed enfatizzata con tempismo dagli utopici progetti di Lamont Young. L'architetto scozzese aveva redatto tra il 1883 e il 1888, grafici di grande suggestione prefigurando un verosimile Quartiere dei Campi Flegrei (dotato di un grande Palazzo di Cristallo e di vari luoghi di delizia e di svago) connesso, attraverso un canale navigabile, al più fantascientifico Rione Venezia ai piedi della collina di Posillipo. Ed era una previsione lungimirante, che fu a suo modo captata e tradotta in pietra nel ben più modesto, ma pur dignitoso, Rione Giusso (realizzato nel primo decennio del Novecento), oltre che dai vari complessi balneari e termali che, nonostante tutto, continuarono a contendere il lido all'invadente complesso industriale fino allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Sta di fatto comunque che nel marzo del 1911 venne inaugurato il primo nucleo attivo delle acciaierie sulla spiaggia flegrea dopo circa quattro anni di altalenanti lavori, che fecero registrare un primo significativo ridimensionamento degli iniziali intenti programmatici di elevare l'Ilva di Bagnoli ad «orgoglio dell'industria italiana». La recessione economica del 1907 e la conseguente stretta creditizia imposero infatti la riduzione dell'impianto a soli due altoforni, integrati da una acciaieria di marca Siemens, un blooming e due treni aziendali. Ma c'é dell'altro! Per una singolare (allegorica ?) coincidenza, proprio mentre il Balneum Balneoli (da cui deriva con molta probabilità la denominazione dell'intera area) chiudeva i battenti, la grande fabbrica accendeva i suoi forni, siglando emblematicamente il nuovo ruolo industriale dell'area, ulteriormente rafforzato dai successivi impianti della Cementir e della Montecatini.
Qualcuno ha voluto leggere in questo evento una sorta di ironia del destino, perché in fondo questa terra che i greci chiamavano «campi ardenti», per via dei fenomeni vulcanici ancora attivi, ritrovava a suo modo nel fuoco - sia pure artificiale delle colate di ferro incandescente - il suo genius loci. Ma siamo nel campo di quelle fantasticherie che possono tutt'al più valere come metafore letterarie.
Nella realtà l'Ilva ha modificato drasticamente l'equilibrio ambientale di Bagnoli, senza peraltro produrre quegli anelati effetti benefici di una salda e duratura occupazione operaia. Se riletta nel suo complesso, la vicenda dell'azienda (che solo nei primi anni Sessanta ha assunto la nuova denominazione di Italsider) traccia una linea dall'andamento sinusoidale. Dall'iniziale aliquota di 1.200 operai si registra un costante incremento in un lasso di tempo relativamente breve, per assestarsi sul raddoppio circa della forza lavoro impiegata nei primi anni Venti. Ma già allora iniziano le prime polemiche e le prime ipotesi di delocalizzazione che, se non altro, sortiscono reffetto di porre un freno all'espansione del complesso metallurgico. In prima fila ritroviamo il già menzionato ingegnere De Simone che, nella seconda edizione del suo Piano Regolatore (1922), ribadisce e precisa la sua requisitoria contro l'inquinamento recato dal «colosso industriale dell'Ilva» alla spiaggia di Bagnoli, luogo ideale per bagni e soggiorni di villeggiatura negli immediati dintorni di Napoli. In quella fase tuttavia la protesta non restò isolata.
Seguirono a ruota le non sottovalutabili considerazioni sull'assurdità della contaminazione del «più bello e classico lido d'Italia» mosse dall'archeologo Amedeo Maiuri, e le non meno pertinenti valutazioni urbanistiche di Luigi Piccinato che già a partire dal Piano del 1936 avanzò la proposta di delocalizzare le industrie di Bagnoli nell'area orientale (un'ipotesi poi ribadita in varie altre proposte di piani da lui stesso redatti nel secondo dopoguerra).
Il primo colpo ferale alla fabbrica verrà tuttavia da una calamità imprevista: la guerra. Nella fase acuta del conflitto bellico, tra il 1943 e il '44, il centro siderurgico (divenuto un avanposto strategico nodale) fu ripetutamente bombardato dall'aviazione alleata. A ciò si aggiunsero i danni recati con sistematico furore distruttivo dei nazisti prima della disfatta. Alla fine il complesso siderurgico era ridotto ad un cumulo di macerie. Come ricorda Maurizio Valenzi nella prefazione al volume di Floriana Mazzucca che reca il titolo Il mare e la fornace (Edizioni Ediesse, Roma 1983): «Della fabbrica restavano soltanto gli scheletri delle macchine e delle gru, parte delle costruzioni in muratura ridotte in rovina. Ma è bene non dimenticare che ciò che restava lo si deve soprattutto all'intervento degli operai che ostacolarono a rischio della loro vita l'opera distruttrice dei guastatori tedeschi al momento della ritirata». Agli stessi operai si deve - nei giorni dell'immediato dopoguerra, quando i capannoni superstiti erano ancora occupati in gran parte dalle truppe americane del colonnello Poletti - l'impegno «a sgombrare (lavorando un'ora in più al giorno) senza alcun compenso la centrale termica e quella elettrica dalle macerie onde contribuire alla messa in efficienza di due caldaie e di un turbo alternatore».
Questa pagina di storia rivela, al di là dell'autentico pathos che la sottende, il senso profondo del legame sentito dai lavoratori verso il luogo e gli strumenti del proprio lavoro. Un legame logico prima ancora che passionale, che ha rappresentato per altri versi una delle ancore più salde che hanno trattenuto la cittadella di acciaio sul lido di Bagnoli. Tantè che negli anni del dopoguerra il colosso siderurgico non solo ha risalito la china ma ha ripreso lentamente ed inesorabilmente a crescere, a dispetto dell'inquinamento ambientale e, di lì a poco, dello stesso deficit aziendale che hanno contrassegnato la più recente vicenda dell'Italsider.
Col senno di poi potremmo forse affermare che sia stato un errore di valutazione urbanistica approvare nel 1961 il vasto programma di ampliamento dell'ILVA; ed ancor prima concedere nel 1951 di aprire a Bagnoli i propri hangars alla Cementir, e, quasi a ridosso, alla Montecatini e alla Eternit nel quartiere limitrofo di Cavallegeri d'Aosta. Una più ragionevole pianificazione avrebbe dovuto indurre a non lasciar «chiudere» Napoli tra due morse industriali, sia ad est che ad ovest. Anche in termini strettamente economici, una destinazione più consona alla naturale vocazione dell'area di Bagnoli avrebbe, forse, recato maggior benefici di quelli indotti da aziende ad alto potenziale inquinante ed a basso livello occupazionale.
Forse? Forse, perché nessuno può ergersi a detentore di verità infallibili in grovigli così intricati. Prima di emettere giudizi, bisogna imparare a vedere. Lo scenario industriale ritratto da Raffaela Mariniello solo a questo ci invita: a poggiare lo sguardo su un pezzo di terra, trasformato dalla fatica dell'uomo, per osservarlo nel suo apparire con i lunghi pontili metallici proiettati sul mare, l'aridità delle cave di carbone, la tristezza delle delle marine, il tanfo di gomma bruciata nell'ora del tramonto di un sogno o, forse, di un incubo.

Il silenzio bagna Napoli

Giuseppe Montesano

Quello che afferra alla gola e fa mancare il fiato, è il silenzio: un silenzio notturno, enorme. Dov’è sprofondato l’ululato dei clacson? Quale voragine ha risucchiato le voci assordanti? Qui ora può accadere qualunque cosa, perché questa città non ha ancora un nome. Nel suo porto il sale è diventato cemento, le pozzanghere sono sontuosi petroli, nelle sabbie sbocciano mostruosi fiori di plastica. Dove portano queste curve di strade deserte battute da una pioggia invisibile? Quello che sembra un mare oleoso non sarà un materiale di nuova fabbricazione? E chi ha trasformato il gasometro dismesso in una giostra panoramica?

Devo sillabare i nomi, per capire: Nisida, San Giovanni, Bagnoli, Scampia, Ponticelli, Quartieri Spagnoli, Coroglio, Sanità: è Napoli… Come brancolando in un sogno ora la riconosco, la vedo. Sono i lavori ferroviari a San Giovanni, ma anche una necropoli preistorica; sono le navi nel porto di Napoli, ma potrebbero essere le rampe di lancio di un film di fantascienza; è un rifiuto di polistirolo in riva al mare, ma forse è un meteorite precipitato da un altro mondo. Potrebbe essere già arrivata la fine della storia, in questo silenzio: o la storia potrebbe non essere mai cominciata.

E’ l’alba o il crepuscolo qui? L’occhio della Mariniello ha sospeso il tempo, e ha scavato nella realtà che si vede una voragine dalla quale sbucano i fantasmi della città invisibile. L’enorme e il minuscolo in questi paesaggi si scambiano le parti di continuo, e in questa luce nitida fino a diventare irreale le due smorfie opposte del bello e del brutto si fanno indistinguibili. Forse è per questo che a un tratto diventa impossibile trattenere le invisibili lacrime che salgono agli occhi di fronte a questi oggetti spaesati, al viottolo illuminato da una lampada fioca, alla barca sopravvissuta alla devastazione: si vorrebbe sopravvivere con loro, con le cose mutilate, e insieme perdersi in questo paesaggio dove un muro, una gru, un mare sono investiti dal fascino che nel colmo dello sfacelo trova l’alito di pace disperata che soffia nel Crepuscolo del mattino di Baudelaire: l’aria è carica del brivido delle cose che svaniscono come un viso in lacrime asciugate dal vento…

Ma le cose in queste fotografie sono salvate, il gesto che fa scorrere il pianto è lo stesso che lo asciuga. La Mariniello fa cantare anche i relitti delle navi affondate nel porto di Baia, le lamiere senza volto di Bagnoli, il cemento dei piloni delle tangenziali: rottame, plastica, crepa, ruggine, scheggia: niente resta brutto perché il suo occhio lo fissa con attenzione, lo lascia respirare senza ansia di afferrarlo, gli concede di restare insensato. Qui la discarica assoluta della grande città non è diventata estetica attraverso l’inganno, non è stata mascherata da merce che strangola quella stessa bellezza che crede di far esistere. Qui l’orrore delle periferie sconquassate non è velato, lo sfregio del moderno cresciuto senza forma on è occultato: ma lo sguardo pacato e crudele della Mariniello dice che l’aggressione nascosta nelle cose è in qualche modo innocenza, che il disastro non emana dalle macerie solo in apparenza viventi delle nostre abitazioni, ma che il vero orrore abita la mente di chi ha deciso che amare le apparenze del mondo è improduttivo, e che contemplare senza vedere è una perdita di tempo.

Alla fine di Napoli c’è un’immagine dei quartieri Spagnoli che riassume tutta la meravigliosa ambiguità del viaggio della Mariniello dentro la città prosciugata: una fotografia dove compaiono solo finestre illuminate di case popolari, come occhi ancora aperti. Non si vedono figure umane, perché bisogna fare lo sforzo di crearle, di immaginarle come presenze benigne. Cosa c’è in quelle stanze ad aspettarci: la pace serale intorno a una cena familiare, o la solitudine atroce che tocca coloro che sono sopravvissuti al massacro? Sguardi attenti e amorosi anche se alla fine della giornata appannati dalla stanchezza, o spettri osceni travestiti da mogli figli madri amici amanti? Ma la luce è accesa, per sapere se dentro non sono tutti morti, bisognerà appena sospingere la porta.

Gran tour alieno

Una passeggiata nell'opera di Raffaela Mariniello

Valeria Parrella

Il viaggio in Italia si ripete a cadenze regolari, e con armi che gli artisti variamente sfoderano assecondando i tempi e gli anni. Il viaggio in Italia è un viaggio necessario a dirsi la disciplina e il degrado, a dirsi se quello che vediamo corrisponde a quello che sapevamo, che ci avevano detto, se corrisponde a o meno ai ricordi alle proiezioni. Ma su di esso, sul viaggio non si posano solo gli occhi in maniera amorfa, indistinta, si posa anche l'occhio della mente, è lo sguardo stesso a trasfigurare e trasporre.

Questa che io spettatrice dell'Opera compio è una lunga passeggiata dentro i modi nuovi dell'Italia che non vogliono non riescono a prescindere dai vecchi, è la camminata lenta dell'antico viandante che si ritrova sconfortato e disorientato dall'occidente trionfante che incombe. Cammino per le piazze che un tempo sapevo e ombre di persone mi ricordano che non sono sola, che c'è un punto della nostra storia in cui noi guardiamo la fontana di Trevi, sì, ma è anche essa che guarda noi, e noi non lo sapevamo.. che c'è chi passa e c'è chi resta. In genere ciò che resta qui è una profonda bellezza che ha saputo scansare l'effimero della giostra e dei palloncini. Ma noi li abbiamo saputi scansare?

E se e quando non l'abbiamo fatto non hanno preso essi stessi il ruolo di bellezza, come nella lunga sequenza dello skilift, o peggio come nella convinzione del proprietario dell'Hotel Bellevue? Cosa è dunque la bella vista? La montagna, il manufatto umano o la sovrastruttura mentale che si oggetti vizza nel neon? Questa e altre riflessioni, passando, per cui, per queste calli, ci si ritrova nel mondo rappresentato piuttosto che in quello da rappresentare, poca distanza ci mettiamo, ci impiego io Alice per varcare la porticina e cercare la meraviglia, scoprire che nel parco di divertimenti ci si è già, ci eravamo già andati. E potrebbe sembrare un modo di vedere il mondo, questo, che lascia dentro l'orrore e se ne chiama fuori nell'occhio muto dell'osservatore, muto e pregiudiziale, ma a me che cammino per questa Italia aliena, aliena io sembra uno dei possibili modi per disvelare l'inganno: calati i drappeggi di cellophan bisogna esser fortunati, se dietro vi compare il mosaico bizantino di San Marco invece che la Santa Maria Novella in miniatura.

L’opera, ovunque

Maria Letizia Pelosi

I grandi paesaggi sono delle visioni. Sono sempre frutto della combinazione di immaginazione e di realtà, dell’affioramento, a volte lento, altre improvviso, dell’invisibile verso il visibile. In un paesaggio vedo qualcosa che mi rimanda incessantemente ad altro, come in un sogno; è come se non percepissi lo spazio reale, ma qualcosa di simbolico che lo scavalca e restituisce la visione in una forma nuova. Succede quasi di trasformarmi fisicamente, di sentire una fusione del mio corpo con lo spazio fuori di me. La fotografia che ne viene fuori è frutto di questo movimento: prima una visione, poi la trasformazione di questa visione, cui seguono altre immagini, altre visioni.
La luce non è un aspetto tecnico, o perlomeno non è solo un effetto della tecnica, ma un segnale che interviene a porre degli accenti e a mettere in evidenza, come fa la sottolineatura di una frase in un libro, il senso della pagina intera. Potrei dire che uso la tecnica in funzione della visione e non il contrario, tanto che, malgrado giochi spesso con la luce artificiale, provo a renderla quanto più possibile spontanea e verosimile. In ogni situazione, per esempio, due alberi in un campo con il vento che li piega entrambi da un solo lato, so tecnicamente cosa succederà e come inciderà il vento sulla foto, ma è la visione in sé a coinvolgermi.
Sono invece attratta dai due elementi quando si mescolano, quando incontro la natura nell’architettura e viceversa. Fotografare troppo e smaccatamente l’architettura mi sembra una limitazione, perché l’architettura manifesta in modo evidente l’opera dell’uomo e, d’altronde, non c’è riparo da quest’intervento. Per questo cerco il paesaggio che sta per essere trasformato da una costruzione, o che l’ha incorporata insieme a tutte le modificazioni prodotte dal tempo, in definitiva cerco il fare degli uomini, la loro presenza attiva anche dove sembra che ci siano solo stati di vuoto o di abbandono. La similitudine a cui penso è quella della natura come il pianeta abitato dagli uomini e dell’architettura come il manufatto che rappresenta questo abitare. La relazione tra paesaggio e architettura è costante e imprescindibile, eppure spesso si interviene sulle città senza intelligenza, trascurando i contesti storici e geografici dei luoghi e rischiando così di fare città tutte uguali, mentre l’architettura dovrebbe colpire anche il pensiero, l’anima. Ma queste possono facilmente diventare speculazioni, resta il fatto che per me i posti più interessanti sono gli spazi aperti, le strade dove trovo l’albero e la fabbrica in forme che, nella mia visione, prendono una particolare sembianza.
A volte questa ricerca somiglia al lavoro dell’archeologo, la definirei un’archeologia contemporanea, un reperimento di tracce non di quello che abbiamo fatto ma di quello che stiamo facendo e che riguarda da vicino il consumo. Le cose si consumano in modo ideale ancora prima di logorarsi materialmente, molte città si trasformano in tempi rapidissimi e anche questo sviluppo ha l’aspetto di un consumo. Ci sono realtà che nell’Europa ricca non esistono più, ma che puoi trovare ancora e solo nei paesi cosiddetti arretrati; per questo considero Napoli e in genere tutto il Sud del mondo come un’area geografica e mentale a sé.

Nelle mie fotografie tento di restituire una riflessione sulla società in cui viviamo e, seppure la mano mi abbia preso, talvolta, sullo spettacolo o sull’effetto scenografico, credo che il paesaggio restituisca ad ogni modo un pensiero. Mi chiedo spesso come aver cura di ciò che abitiamo: i luoghi, ma anche le relazioni, le emozioni. In questo sforzo, che dovrebbe coinvolgere in modo speciale gli artisti, trovo spesso l’arte distante, relegata in una vetrina, a volte diventa addirittura l’immagine del potere, di una parte politica che se ne fa lustro, ma l’arte può vivere solo se è indipendente, non solo dal potere, ma persino dalle circostanze particolari e personali di chi la produce. Una creazione artistica dovrebbe esistere di per sé e provocare una successione di domande e di emozioni che si rinnovano con il passare del tempo. In questo senso considero un’opera attuale, mentre se rispecchia giusto il momento storico senza riuscire a superarlo, - penso a quei gusti e quegli stili legati esclusivamente a una moda - un’opera non ha attualità, per lo meno non come la intendo io.
L’inattualità è un rischio che io stessa ho paura di correre e potrebbe accadere che le mie fotografie perdano di significato con il passare del tempo, magari subendo l’influsso di idee e tendenze a loro volta limitate. L’attualità invece esprime un concetto che non perde senso, un’esistenza che non si interrompe, perciò quando descrivo un luogo lo faccio senza eliminare le parti più sgradevoli o più legate al contesto, là dove lo spirito mi sembra essere senza tempo. Le statue che ho visto al museo archeologico di Atene mi sono sembrate molto più moderne delle pitture pompeiane, anche se forse sono stata colpita così profondamente dalle statue greche perché la scultura e la materia mi interessano di più. Spesso, quando lavoro, immagino di avere una creta per le mani da plasmare; la scultura è un oggetto e a me gli oggetti interessano sempre. Nel paesaggio cerco l’opera dell’uomo e pertanto non credo che non ci sia presenza umana nelle mie immagini.

Il paesaggio è un ritratto che anziché mostrare l’uomo per mezzo del corpo, lo rappresenta attraverso ciò che gli sta intorno e che lui stesso ha modificato, in definitiva ne rappresenta il pensiero. Se guardo invece alla tradizione pittorica, il ritratto mi colpisce solo come rappresentazione dell’uomo in un tempo diverso. In particolare, di alcuni pittori fiamminghi trovo straordinario che quasi non dipingano più uomini, ma scene, dove è importante il simbolo, il significato dell’intera raffigurazione, la luce. In ogni forma d’arte ricerco una visione, quel blocco di sensazioni capaci di rendere attuali le forme e i contenuti di un’opera. Dopotutto, anche la mia scelta della fotografia come mezzo di rappresentazione è casuale, è la cosa che ho iniziato a fare da molto giovane, la penna più facile per me, ma in fondo credo che un mezzo vale l’altro, se avessi scolpito avrei avuto lo stesso tipo di approccio. Ultimamente sto provando a utilizzare altre modalità espressive, come il video. Ho composto in un unico quadro narrativo una molteplicità di immagini in movimento, è un esperimento nuovo dove però torna la mia inclinazione al racconto: i luoghi raccontano sempre qualcosa.

Generalmente trovo senza difficoltà quello che mi interessa, perché sono sempre le aree delle città a cui manca una pianificazione urbana logica. Spesso sono zone dove non c’è una grossa stratificazione temporale, luoghi abbandonati, fuori dai margini, dove normalmente abbiamo timore di andare e che racchiudono qualcosa di forte, vicino alle profondità dell’anima. A volte questi posti oscuri sono indicati da segnali stradali: “Wasteland”, le terre di nessuno, desolate. C’è un’ampia ricerca fotografica e architettonica su questi luoghi che, per quanto abbandonati, sono comunque stati attraversati dall’uomo. A volte anche io ho paura, anche fisica, di andarci, ciò nonostante scelgo la notte, perché accende un’inquietudine che mi fa “sentire” questi posti. Capita spesso di avere paura e quando non succede la scena si rovescia e diventa ridicola, assurda. Allora provo a spingere l’ironia ancora di più all’estremo, mi piacerebbe che si ridesse davanti a una mia fotografia e so che succede ogni tanto. A Palermo e a Bari mi è capitato di vedere situazioni inverosimili, dove le cose sembravano messe lì a posta, come se fossero delle installazioni nel paesaggio, mentre sono spesso frutto dell’abbandono o del caso. Non credo che queste siano cose invisibili e che riesco a vedere solo io, anzi, mi sembra impossibile non vederle, semmai io ci pongo l’accento, ma sono già molto evidenti, sembrano animali, altre volte viscere, hanno sempre forme evocative di sentimenti come il riso, la paura, lo stupore.

A Cardiff, per esempio, ho visto una schiera di case tutte uguali, una sull’altra, in una zona di soli prati e alberi. Le case sembravano costruite con l’idea di un’architettura a misura d’uomo e invece finivano con l’avere un effetto opposto, con la misura dell’uomo perduta nella pretesa di una funzionalità irrealizzabile. Mi sembrava una situazione da fumetto, ero completamente immersa in un’atmosfera surreale e cercavo a tutti i costi di trovare l’angolo, il punto giusto da dove riuscire a rappresentare al meglio questa scena a dir poco singolare. Tutte quelle case ben distribuite, le macchine ordinate, mi sembravano parte di una situazione inesistente, finta. La realtà non era lì, ma altrove, dove è impossibile la sistemazione e la vita è sempre in movimento, mentre l’ordine è una finzione, una facciata o una vetrina, è qualcuno che si veste bene per andare a teatro o alla festa. Dove tutto è programmato per essere funzionale, lì l’auditorium, lì il centro sportivo e il molo per le barche a vela, provo una forte insofferenza, ma non vorrei sembrare superficiale o nostalgica. Con un amico, che mi accompagnava nei sopralluoghi a Cardiff, di fronte all’appiattimento del paesaggio, simile se non uguale a quello di mille altri posti sviluppati, abbiamo discusso sulla generale omologazione, tra le tante, del concetto di tempo libero. Mi chiedevo quale realtà fosse più deprimente, se quella del Wine-Bar, della moto d’acqua e di tutte queste parodie del divertimento esclusivo, o quella del fango e delle fabbriche. Credo che sia una questione di posizione, di scelta, ma non credo che la vita degli uomini diventi più bella o più facile quando, al posto del fango lasciato dalla bassa marea, si costruisce un centro commerciale. E d’altra parte, la ricerca di altre possibilità non mi spaventa. Si può dire che nel mio lavoro ci sia un tema costante, comune a tutte le immagini, indipendentemente da dove siano state realizzate: cosa ci sarà dopo la civiltà industriale?
I paesaggi, forse, sono diventati un po’ stancanti.

I luoghi raccontano sempre qualcosa...

Aldo Rinaldi

“Jess distolse lo sguardo dall’ondeggiare dell’albero fuori dalla finestra polverosa della capanna. I rami erano soffusi di una luce incantevole. Ma non riusciva a stabilire un nesso tra le proprie sensazioni e tanta bellezza. Quindi volse leggermente il capo e osservò la fotografia incorniciata del suo unico amico Pete, in particolare i suoi occhi ambrati”.(1)

E’ difficile spiegare con precisione le emozioni suscitate dal lavoro di Raffaela Mariniello. A primo istinto verrebbe semplicemente da definire splendide queste foto in bianco e nero e di formato particolarmente grande. In realtà si va ben oltre il mero impatto estetico. La fotografia in bianco e nero ha un fortissimo potere di seduzione; molto più di quella a colori ha, implicito, il senso dell’eternità e ci invita a fidarci di essa come testimone obiettivo di una certa verità. Il fascino della fotografia documentaria tuttavia, spesso in modo inquietante, trascende il contenuto dell’immagine; chi ama la fotografia, anche in presenza di soggetti sconvolgenti, è attratto dall’immagine per le sue qualità formali, proprio per quel suo essere una splendida rappresentazione. La bellezza, quindi, è una descrizione sfuggente e come tale è forse appropriata per il lavoro della Mariniello, le cui serie di immagini seducenti, spesso rivelano sconvolgenti sottintesi. Raffaella Mariniello è attratta dal quotidiano, soprattutto dagli spazi urbani e dalle zone industriali, come condomini, strade, fabbriche e terre desolate. Attrezzata con una macchina fotografica di grande formato, lavora quasi esclusivamente al crepuscolo quando entra in gioco quell’ insieme di luce naturale e artificiale che le è più congeniale e immerge i suoi soggetti in un particolare bagliore incandescente. La ricerca notturna dell’artista inizia a Napoli, sua città natale, che documenta da oltre dieci anni. Un lavoro costante che ha portato alla realizzazione di numerose mostre in Italia e in tutta Europa e a varie pubblicazioni tra cui Napoli veduta immaginaria, 2001 e Bagnoli, una Fabbrica, 1991. Quest’ ultima è una raccolta di fotografie scattate alle acciaierie Italsider di Napoli, ora dimesse. La chiusura dell’acciaieria in un periodo di recessione è emblematica per il passaggio del territorio da economia industriale a turistica; come molte altre fabbriche non più attive, quella dell’Italsider ha sostituito la funzione industriale con quella ricreativa. Per l’artista, la serie di Bagnoli rappresenta una fase di cambiamento che segna la fine della sua carriera di fotoreporter e l’inizio del suo lavoro nel campo più strettamente artistico. La serie cristallizza molti dei temi chiave di Raffaela Mariniello, in particolare la fusione tra sviluppo urbano e questioni socio economiche, due temi che si riflettono in tutta la sua opera e che in definitiva trovano la più alta espressione nelle sue successive rappresentazioni del paesaggio postindustriale.

Raffaela Mariniello pone al centro del suo interesse lo spazio: lo spazio che sta nel mezzo o quello senza una funzione ben definita. Lungo l’arco della sua carriera ha fotografato in Grecia, Spagna, Libano, Francia, Nord Africa e non solo. Ovunque l’artista scelga di lavorare, apporta una sensibilità e un modo di rapportarsi al soggetto tipici di chi è cresciuto a Napoli. A prescindere dal contesto geografico, sono molti i tratti caratteristici ricorrenti nelle sue fotografie, questo forse, per un motivo molto semplice: l’influenza che su di lei continua a esercitare Napoli. Napoli non è tanto una città quanto un insieme di territori e storie multiformi; un palinsesto diventato per l’artista (come per molti altri prima di lei) musa o pietra di paragone. Nel saggio Ponticelli, da casale a periferia Giancarlo Alisio parla della genesi della particolare topografia urbana di questa città che commenta così : “ Napoli si è trasformata in una sterminata e disordinata periferia che, lungo la costa raggiunge Bagnoli e Castellammare e, nell’entroterra lambisce Aversa e Nola. (…) in assenza di organici piani di sviluppo e sorti in maniera del tutto casuale, hanno totalmente sconvolto e trasformato un ambiente sedimentato e consolidato nei secoli”. (2)
Per un’artista attratta dagli spazi di mezzo, Napoli costituisce il modello per eccellenza: una città che include zone periferiche oltre che attorno a sé, anche al suo interno; la periferia dunque, è disseminata su tutta l’area urbana. Il paesaggio napoletano influenza anche l’altro elemento sempre presente nell’opera dell’artista: la natura. Nelle città in genere, la natura intesa come territorio lasciato allo stato brado si trova ai margini del centro urbano. E quando viene inglobata all’interno della città, si tratta di aree “mantenute”, come i parchi o gli spazi ricreativi. A Napoli esiste un genere diverso di coabitazione tra spazi naturali e urbani, anch’esso frutto di uno sviluppo caotico e privo di qualsiasi pianificazione. Le fotografie di Raffaela Mariniello riproducono l’attraversamento di spazi urbanizzati e lasciati allo stato brado. Invece di fungere da metafora di un’innocenza incontaminata preindustriale, le sue immagini catturano dei luoghi in cui coesistono cultura e civilizzazione. Spiega l’artista: “L’ideale di una natura pura e integra ha lo stesso carattere della pretesa di oggettività. Non mi interessa andare alla ricerca di una natura cosiddetta incontaminata, sebbene in passato l’abbia fotografata spesso, la natura nella sua essenzialità mi coinvolge di meno, così come non mi coinvolge l’architettura nella sua essenzialità. Sono invece attratta dai due elementi quando si mescolano, quando incontro la natura nell’architettura e viceversa.”(3)
In un certo senso, questo interesse si manifesta come un dialogo silenzioso tra natura e uomo. Perchè, come lei dice,“ i luoghi raccontano sempre qualcosa.”(4)
Come quasi tutte le storie, quelle della Mariniello vengono alterate nel momento in cui sono registrate o trascritte. Le parole di un racconto, il suo linguaggio e le intonazioni delle sue ripetute narrazioni, lentamente si trasformano con il passare del tempo attraverso processi che esistono proprio per garantire la sopravvivenza stessa del racconto - traduzione, riproduzione, disseminazione. E’ esattamente quanto accade nell’opera di Raffaela Mariniello, il cui metodo di annotazione trasforma la nostra percezione degli ambienti che ci sono familiari. I lunghi tempi di esposizione delle fotografie, da 20 secondi a 15 minuti, sfocano le forme in movimento, mostrandosi alterate sulla superficie piana della stampa. Di persone non se ne vedono da nessuna parte, ma sono in genere evocate pur nella loro assenza, dalle squallide case popolari, dalle strade segnate dalla povertà e dalle superfici a specchio che ricorrono nella sua opera e che finiscono per creare un effetto di dislocazione all’interno del mondo. Infatti in molte sue fotografie è in agguato qualcosa di sinistro, una presenza elusiva riconoscibile solo in parte, come repressa. In questo senso il lavoro di Raffaela Mariniello si distingue per essere profondamente inquietante. Le fotografie sono tormentate da un’architettura del quotidiano che appare superata o superflua e questa caratteristica viene enfatizzata dalla mancanza di colore nelle immagini, la scarsità dell’illuminazione e i lunghi tempi di esposizione. Gli oggetti di uso quotidiano e le superfici delle strade cittadine diventano selvaggi ed estranei.

La fedeltà di Raffaela Mariniello alla fotografia in bianco e nero rasenta l’etica. Eliminando il colore, sottopone le immagini ad una forte uniformità di linguaggio. C’è sempre un soggetto in primo piano che evita all’immagine di cadere in una documentazione puramente formale, una pratica ereditata dalla Scuola di Düsseldorf, che è invece ormai dominante nel mercato fotografico attuale. Non si vuol intendere con ciò che questa abitudine di Raffaella Mariniello non sia analitica, bensì che essa predilige un approccio più classico, sia sul piano tecnico che tematico. Abbondano i riferimenti all’architettura antica: l’edificio in cemento che si sgretola sembra un tempio greco, le mura in pietra della città di Beirut che incombono dall’alto hanno un sapore quasi biblico. Per la recente mostra in Galles, ha preparato una nuova selezione di immagini scattate a Cardiff affiancata a opere create lungo tutte le sponde del Mediterraneo, ponendo come elemento unificante le imprese (e le disfatte) eroiche delle rispettive civiltà del passato.

‘ … Lo spunto è dato dall’episodio del 27 ottobre 2005, un giovedì, quando una decina di studenti delle superiori giocavano a calcio nella banlieue parigina a Clichy-sous-Bois. All’arrivo della polizia per un controllo dei documenti, i ragazzi si dileguarono perché privi di documenti. In tre si nascosero in una cabina elettrica dell’EDF e restarono fulminati dall’alta tensione. Due di loro, Ziad Benn di 17 anni e Banou Traore di 15 morirono fulminati mentre il terzo, Metin di 21, riportò gravi ferite”.(5)

Le fotografie dell’artista, che alludono al passato nel presente, sono testimoni possenti del trascorrere del tempo e di conseguenza, della mortalità. Il rimpianto per il passato determina naturalmente un sentimento di reminiscenza, ma quella che ci mostra l’artista non è certamente una nostalgia superficiale per i giorni andati: suscita invece in noi una sensazione di coesistenza tra passato e presente. Analogamente, gli stili del design universale e di quello locale coincidono nella sua fotografia (come gli edifici moderni e quelli d’epoca), il passato si manifesta nelle strutture che l’artista cattura, riecheggianti una forte valenza metaforica. Le pozzanghere d’acqua come specchi, le forme geometriche ripetitive dell’edilizia popolare, la segnaletica stradale e i cartelloni per affissioni pubblicitarie vuoti, fungono da metafore del fluire del tempo, che l’artista definisce “non tracce di quello che abbiamo fatto ma di quello che stiamo facendo”. (6)
Pur realizzate senza nessun intervento digitale, le opere di Raffaela Mariniello fanno pensare che vi sia qualcosa di innaturale o di strano. Questo è dovuto tanto alla tecnica dell’artista quanto alla tensione che crea per il fatto che scatta le sue immagini in circostanze spesso pericolose recandosi in luoghi bui e inospitali. La città è luogo di potenzialità, di incontri e di esperienze ma è soprattutto uno spazio familiare. Invece nell’opera dell’artista la città è vista come fonte di presagi, un’impressione simile a quella che lo scrittore Patrick McGrath definisce Gotico Contemporaneo. Nel lavoro di Raffaela Mariniello, il Gotico è qualcosa che “non abita più solo nei castelli medievali, nelle case neogotiche o nei villaggi isolati del New England” ma risiede ora anche “negli oscuri paesaggi urbani notturni, nei parcheggi abbandonati, nelle fabbriche, nei magazzini e nelle altre tracce della cultura postindustriale oltre che nello sprawl suburbano dall’apparenza normale e pacifica”. (7)
Questo disagio è ulteriormente evidenziato dalla presenza della natura che turba gli scenari urbani con la sua “selvatichezza” e che, infestante come l’edera, sembra riconquistare il suo spazio, determinando l’erosione del moderno con un effetto che ricorda l’osservazione di Clement Greenberg, secondo il quale “ la nostalgia retroattiva, la frammentazione formale e le tracce biomorfe ostacolarono pericolosamente il progredire della modernità”.(8)
Ciò che di questi effetti inquietanti interessa particolarmente è che sono un codice perfetto per percepire le grandi questioni socio politiche che sottendono, latenti, le sue immagini.

Il Gotico contemporaneo è sempre presente nelle immagini di Raffaela Mariniello; spazi caratterizzati da telecamere di sorveglianza e dall’ostentazione di uno stato egemonico. Mentre scrivo, a Parigi è scoppiata la rivolta delle banlieu, provocata dalla mano pesante della polizia francese contro una minoranza ghettizzata nella periferia della capitale. In una situazione di disoccupazione e di razzismo, la reazione violenta era inevitabile. Sebbene scatenati da un unico tragico episodio, gli scontri si sono verificati soprattutto a causa dell’emarginazione sul piano economico, sociale e spaziale di alcuni segmenti della popolazione. Difficilmente episodi analoghi si sarebbero potuti verificare nei quartieri ricchi di Parigi, dove mancano quelle sacche di esclusione sociale. Forse è questo l’aspetto del racconto che sovente ascolta Raffaela Mariniello nei sobborghi e negli spazi interstiziali che predilige: il selvatico nell’urbano, l’estraneo nel quotidiano e il Gotico che è “spinto dalla trasgressione non meno che dal degrado”. (9)
McGrath sottolinea la tendenza del Gotico a essere ironico e al tempo stesso attuale, notando che “un racconto di degrado sociale può contenere accuse precise rivolte a un sistema di sfruttamento economico e razziale che per primo ha determinato il degrado stesso”.(10)
Ciò che è indiscutibile è che le fotografie di Raffaela Mariniello mettono in luce l’abisso che separa le splendide immagini che ci mostra e la nostra cognizione di quegli spazi nella loro realtà socio politica. Come dice l’artista: “Si può dire che nel mio lavoro ci sia un tema costante, comune a tutte le immagini, indipendentemente da dove siano state realizzate: cosa ci sarà dopo la civiltà industriale?” (11) Non possiamo saperlo, certamente la fotografia.

Bibliografia
1. Dennis Cooper, ‘Curtains’, in Gothic: Transmutations of Horror in the Late Twentieth Century Art. The Institute of Contemporary Art, Boston, 1997. Pubblicato da Christoph Grunenberg.
2. Giancarlo Alisio, ‘Ponticelli da casale a periferia’, Arin Buren, Incontri Internazionali d’Arte, 2004.
3. Maria Letizia Pelosi, ‘L’opera ovunque’ frammenti di conversazione con Raffaela Mariniello, (Anacapri, 2005).
4. Ibid, Maria Letizia Pelosi.
5. Leila Shenne, Paris is Burning, 2005-11-05 21:03, Indymedia Somewhere www.indymedia.org.uk
6. Ibid, Maria Letizia Pelosi.
7. Patrick McGrath, ‘Gothic: Transgression and Decay’, in Gothic: Transmutations of Horror in the Late Twentieth Century Art. The Institute of Contemporary Art, Boston, 1997. Pubblicato da Christoph Grunenberg.
8. Ibid, Patrick McGrath.
9. Ibid, Patrick McGrath.
10. Ibid, Patrick McGrath.
11. Maria Letizia Pelosi, ‘L’opera ovunque’ frammenti di conversazione con Raffaela Mariniello, (Anacapri, 2005).

Ferdinando Scianna

Ci sono due grandi famiglie di fotografi, quelli che le fotografie le fanno e quelli che le ricevono. Naturalmente, la distinzione è piena di attraversamenti e sfumature. Questo non impedisce una certa bizzarra diffidenza tra gli uni e gli altri, anche quando, come spesso avviene, gli uni si scambiano con gli altri le attitudini e i risultati. Raffaela Mariniello io la ascrivo alla famiglia dei fotografi che fanno le fotografie. Ma, benché io mi consideri un fotografo che le fotografie le trova, nei confronti di Raffaela, come di pochi altri di questa tendenza, non nutro affatto diffidenza, ma, al contrario, interesse e ammirazione. Le sue, certo, sono vedute immaginarie di Napoli, come recita il titolo del suo bel libro.

Ma non per questo, io sento, io vedo, meno profondamente napoletane. I suoi spazi lei li cerca, con metodo e meditazione. Ma una volta trovati, ha bisogno di collocarli nell’universo di luce e di spazio che le sono congeniali. Il suo universo è la notte, quella zona del giorno e della coscienza nella quale il mondo e noi stessi percepiamo più forte il senso del passaggio, della scomparsa e della trasmutazione, della grande, ciclica galassia alla quale per un istante apparteniamo. Trovarli non le basta. Quello che trova lo deve reinventare. Non le basta registrarlo, come a quell’altra famiglia di fotografi. Lo deve trasformare. Per certi versi dipingere.

Ecco, Raffaela agisce su un territorio a cavallo tra la fotografia, che tenta di restituire le scoperte dello sguardo, e la pittura, che dallo sguardo parte per produrre una propria visione. Questo atteggiamento ha alle spalle una grande tradizione, a volte gloriosa, a volte mistificatrice.

Raffaela Mariniello è particolarmente interessante perché utilizza come pennello del suo “dipingere” lo strumento più tecnologicamente fotografico per eccellenza, la luce, la luce del flash. Nato per fare vedere nel buio ciò che altrimenti non si vedrebbe, Raffaela usa il flash in modo diverso, lo usa per sottolineare, rendere protagonista, o qualche volta abbacinare fino alla cancellazione, ciò che lei vuole che si veda, che noi vediamo, o non vediamo. E’ un metodo che certo si lega alle affascinanti esperienze del russo Semienako, che lei conosce bene. Ma totalmente e originalmente reinventato. Semienako disegna con le sue torce di luce inventando o ricostruendo in modo fantastico soprattutto luoghi mitici: Mariniello, punta il suo sapiente flash su elementi che in virtù di questa abbacinazione si rivelano e ci rivelano tutta la loro portata simbolica e materica e fa diventare mitici e surreali luoghi marginali. E tutto questo con una nettezza materia, una sapienza di stampa che fanno delle sue immagini un autentico godimento per gli occhi.

LA FOTOGRAFIA DI RICERCA

Intervista a cura di Luca Sorbo

Il sogno, l’attenzione sono al centro della ricerca di Raffaela Mariniello. Immagini in B&N ricche di dettagli e stampate in modo pregevole diventano dei veri e propri interventi sul territorio. Realtà periferiche e marginali, rimosse dalla collettività, sono trasformate in vedute immaginarie che sorprendono lo spettatore.

Come è nato il tuo interesse per la fotografia?

Fin da giovanissima ho sempre frequentato artisti. Ho sempre sentito l’esigenza di esprimermi. Non so dire come è nato questo interesse . Credo che sia qualcosa insito in ogni persona. Un profondo bisogno di esprimersi attraverso un mezzo artistico. Prima ho cominciato a dipingere. Poi in seguito mi sono dedicata alla fotografia ed è diventata il mezzo più idoneo per la mia attività e mi sono concentrata su di essa.

Quali sono state le tappe principali della tua formazione?

Come quasi tutti gli altri fotografi napoletani sono autodidatta. Ho cominciato lavorando un po’ in tutti i settori della fotografia. Dall’ architettura, alla moda, dalla pubblicità alla fotografia aerea.. Fin dall’inizio ho sviluppato una mia ricerca personale. Ho iniziato collaborando per un breve periodo con un’agenzia foto-giornalistica negli anni del dopo terremoto. Un periodo di grande importanza per la mia formazione, è stato frequentare l’ istituto di cultura francese “Grenoble”a Napoli, in cui organizzavano molti incontri con fotografi francesi. Ho appreso molto anche da un punto di vista tecnico poiché per un periodo è stata attiva una camara oscura con uno stampatore piuttosto bravo, che mi ha insegnato i segreti della stampa fine art.

Come è nato il tuo primo libro Bagnoli, una fabbrica? (1)

Sapevo che la fabbrica stava per chiudere, ma ciò che mi interessava non erano gli aspetti politico sociali, ma la scenografia dei luoghi; ero attratta dall’aspetto spettacolare della fabbrica.Guardandola avevo l’impressione di essere su di un altro pianeta. Questo lavoro è durato molti mesi ed in questo periodo ero completamente assorbita dalla fabbrica, cercavo di esplorarne ogni aspetto. Bagnoli oggi è al centro del dibattito politico locale e nazionale, ma quando ho cominciato a lavorarci, nessuno ne parlava, e la mia scelta è stata solo frutto di un’intuizione. C’è una foto con delle barche in primo piano e la fabbrica sullo sfondo, che è diventata il simbolo del futuro di Bagnoli ed è esposta in gigantografia nella nuova metropolitana di piazza Cavour.
(1) R. Mariniello, Bagnoli,una fabbrica, Electa Napoli 1998, testo di B. Gravagnuolo

Parlami del tuo lavoro sulle Moltitudini. (2)

Questa ricerca è una focalizzazione sul paesaggio metropolitano. Sono una macrofotografia del paesaggio.Con questo lavoro ho voluto avvicinarmi di più ad un’idea di installazione, di scultura. Avevo l’intenzione di fare della fotografia un oggetto.
(2) R. Mariniello, Moltitudini, Sa.Ma, Napoli 2001

Come è nato il libro Napoli veduta immaginaria? (3)

Quando ho realizzato la mia ricerca sulle moltitudini giravo per la città e realizzavo delle foto sul paesaggio urbano, che ho conservato nel tempo.Veduta immaginaria perché questo è il mio naturale modo di vedere la realtà, trasformo tutto in un paesaggio di sogno. Per raggiungere questo scopo l’elemento principale è la luce. Quando faccio un sopralluogo è come se avessi un terzo occhio, già vedo come sarà quella veduta in altre situazioni di luce e scelgo l’ora migliore per ottenere l’effetto voluto. Solitamente amo fotografare all’ imbrunire e uso le luci artificiali o il lampeggiatore elettronico in modo che si integri con la situazione esistente.
(3) R. Mariniello, Napoli veduta immaginaria, Federico Motta, Milano 2001, testo di D. Mormorio

Qual è il tuo rapporto con la città e come ha influenzato il tuo modo di fotografare?

Il rapporto con la città è sempre molto combattuto. Napoli però ha delle particolarità che sono molto stimolanti. Io opero in un modo che pesca molto dalla realtà. Sto attenta a tutto ciò che mi circonda. Mi intrigano molto le città del sud, che sono sempre a cavallo tra passato e futuro, metropoli, che conservano caratteristiche da piccoli centri. Sto elaborando un progetto footgrafico sulle città del sud che hanno caratteristiche simili a Napoli cioè come a me piace dire sono a cavallo tra oriente e occidente.

Cosa pensi della rivoluzione digitale e come ha influenzato il tuo lavoro?

Penso che sia un evento molto utile. Rappresenta una possibilità in più per il fotografo. Uso il computer per sperimentare a video alcune mie istallazioni. E’ solo uno strumento di studio. Non produco mai al computer opere definitive anche se mi avvalgo per la stampa di alcuni ingrandimenti, di un sistema digitale che mi consente anche degli interventi. Ammetto comunque che oggi è possibile elaborare le foto in un modo cosi perfetto da snaturare l’essenza della fotografia che è il legame con il reale. Ma allora il problema centrale torna sempre su cosa sia reale e cosa no.Anche Doisneau avrebbe dovuto indicare che la sua famosa foto del bacio era stata concordata. L’importante quindi credo sia solo il risultato. Se c’è una forzatura o che sia fatta al computer o in altro modo risulterà sempre fastidiosa.

Cosa si può fare per promuovere la cultura fotografica a Napoli?

Servono idee, iniziative ed una precisa volontà da parte dell’ amministrazione a mettere a disposizione strutture e denaro. I fotografi sono troppo impegnati nel loro lavoro per elaborare proposte. Servono cultori della fotografia che siano disposti ad investire tempo e denaro per promuovere la cultura fotografica coinvolgendo istituzioni private e pubbliche. Anche i fotografi dovranno essere disponibili verso queste iniziative ed abbandonare quella posizione di eccessivo individualismo che sicuramente caratterizza molti autori napoletani.

Quale ruolo ha la ricerca estetica nel tuo lavoro?

Sicuramente sono molto attenta all’estetica. Questa è una caratteristica secolare degli artisti italiani. Questa è una critica che viene rivolta a tutti gli artisti italiani contemporanei cioè di essere troppo estetici. In Germania troviamo addirittura l’opposto cioè un’ arte concettuale che nega l’estetica. C’è oggi una tendenza in fotografia che nega sia la tecnica che l’estetica, penso ad esempio a Nan Goldin. Ma io credo che tutto sia estetica. Si può solo dire che si utilizza un’estetica di tipo più o meno tradizionale. Sicuramente nelle mie immagini cerco la spettacolarità, cerco di colpire, ma non si può dire che siano fine a se stesse. Io mi ritengo impegnata socialmente poiché metto in evidenza le realtà marginali della città. Non uso strumentalmente queste realtà le sottopongo all’ attenzione di una collettività, che vuole rimuoverle.

Cosa pensi della sempre maggiore presenza della fotografia nelle gallerie d’arte?

Ci sono artisti che usano la fotografia senza alcuna conoscenza tecnica, come ci sono pittori che non hanno una formazione tradizionale. Non trovo alcun fastidio nel fatto che pittori utilizzano la fotografia. Cosi come trovo ridicolo chi critica ai fotografi che si presentano in galleria affermando che la fotografia non è un’arte. Quello che conta è il risultato qualunque sia il percorso seguito.

Quali progetti fotografici hai per il futuro?

Ho questo progetto sulle città del sud di cui ho parlato precedentemente. Ho intenzione poi di realizzare un lavoro su quelle che io definisco sculture spontaneee e presenti nelle città. Ho anche molti altri progetti per quanto,devo segnalare, che è sempre difficile trovare i fondi per realizzarli. Purtroppo debbo anche occuparmi di cose pratiche come vendere le foto, organizzare mostre, che mi rubano tempo mentre io vorrei occuparmi solo della mia ricerca.

Ai confini di una geografia interiore

Vincenzo Trione

Alle porte della città, il deserto. Qualche passo, e si dischiude un altro mondo, fatto di fabbriche dismesse, simili a relitti di archeologia industriale. Tutto è abbandonato, consumato. I tetti dei capannoni sono sfondati; i pavimenti, coperti di erbacce. A terra, detriti di ogni tipo, macerie, immondizia. Di fronte, - come in una scena di Blade runner - il mare. Raffaela Mariniello è da sempre sedotta da questi luoghi alla deriva. Non ritrae contesti lontani dal reale. Muovendosi nella linea della fotografia di paesaggio, sceglie di confrontarsi e di immortalare topoi che conosciamo – da Bagnoli alle zone vicino al porto -, senza ricorrere ad alcun artificio tecnico. Riesce, tuttavia, ad offrire un’immagine inedita della città. La sua è una Napoli distante, che non c’è, che non abbiamo mai percorso. Invisibile, disabitata, non consumata, appare sospesa, nebbiosa, velata da un bianco e nero che la rende metafisica. Non ci troviamo a nostro agio dinanzi ai suoi scatti. Vengono riprese strade che frequentiamo, angoli a noi familiari. Eppure, spesso, non riusciamo a identificarli. L’oleografia e il bozzettismo sono violati. Non c’è confusione, traffico, colore. Nelle strade, non vediamo individui. Siamo a Napoli, ma sembra di essere in altri luoghi. Non vediamo il sole; il cielo è caliginoso; il mare è trasformato in un lago senza increspature, bagnato da atmosfere plumbee e dall’improvviso affiorare delle luci. Gli ambienti appaiono assenti, privi di presenze umane, ignoti a se stessi. Ci sentiamo quasi in una capitale del Nord Europa, avvolta in una coltre biancastra, che la fa apparire intangibile.

Sono evidenti le differenze con i cicli di lavori realizzati nel corso degli anni Novanta. Si pensi, in particolare, alle Moltitudini e alle Nature morte, in cui, lontana dai modi tradizionali del fare fotografia, la Mariniello aveva assemblato installazioni dense di richiami alla pop art e ai cartoons. Aveva disposto su un unico piano pannelli “sfalsati”, formati da tasselli interrotti da improvvise e deflagranti “crisi”, incastrati in maniera discordante. Aveva operato per accumulo. La fotografia era pensata non come un’arte di racconto, ma come un evento rivolto a fermare vari momenti in un unico istante. Nei suoi anomali “intarsi”, si assisteva all’invasione prepotente di oggetti di vario tipo – scarpe, guanti, ombrelli, libri, pentole, polli, motociclette e altro ancora -, che, accostandosi tra loro, davano il senso della massa, della perdita dell’identità. Si trattava di oggetti semplici, addirittura banali – figure tratte da un quotidiano vissuto, apparentemente privo di valore, impreziosito grazie all’equilibrio formale dell’impaginazione. La povertà di ciò che è usurato veniva rovesciata, sublimata, per acquisire, infine, una eleganza imprevista. Anche se inutili, le cose riprese avevano il potere arditamente poetico di raccontare la vita dell’uomo, senza mai rappresentarla in maniera diretta: segnate dalle ferite del tempo, sembravano relitti di una catastrofe appena avvenuta. Rifacendosi a una tecnica cara alla pubblicità, la Mariniello aveva assunto, nelle sue moltitudini, oggetti che, di solito, non catturano lo sguardo; era riuscita a far rivivere “aggeggi” casualmente ritrovati, per riscattarli dalla loro inutilità, per rendere interessante l’insignificante.

Nei “paesaggi” raccolti in un volume edito nel 2001 (Napoli. Veduta immaginaria) non c’è più il senso del dettaglio, del particulare. Non c’è folla, né massa; ma vuoto, assenza, silenzio. La Mariniello non vuole più alterare la percezione del reale, né infrangere l’unità dell’immagine. Disegna – analogamente a quanto era avvenuto nelle fotografie presenti nel suo libro su Bagnoli (pubblicato nel 1991) - “teatri dell’anima”, in cui non lascia nulla al caso. Ci troviamo dinanzi a fotogrammi molto “costruiti”, in cui ogni elemento è disposto con attenzione, in virtù di una segreta regia. Imposta le proprie immagini come se fossero vere scenografie; dà vita a rappresentazioni di matrice classica, sorrette da rigorosi rapporti. Riprende schegge di un universo degradato e marginale, abitato da gru, da automobili, da cumuli di ferro, da torri di fabbriche, da muri screpolati. Ma non lo fa mai in chiave realistica. Ci conduce al porto, a Bagnoli, nella zona industriale, ai bordi della città, dai paesi vesuviani ai Campi Flegrei, al lungomare, a Scampia. Si sottrae, però, ai vincoli di una visione reportagistica di matrice sociologica.

Scorgiamo angoli di mondo che esistono qui ed ora, ma appartengono anche ad un altrove. Ogni ritmo è arrestato in una dimensione lenta, misteriosamente poetica. Varchiamo i confini di una suggestiva geografia interiore. Convinta che la luminosità diffusa non esalti la forma delle cose, la Mariniello ama scattare all’imbrunire, nel momento in cui la luce sta per scomparire, e la notte – lieve – sta per giungere. Sa che, nella penombra, la vista diviene più acuta, mostrando nuovi sentieri, per favorire l’incontro con territori lontani, e svelare confini nascosti Ci appare un mondo strappato allo sguardo abituale, in cui l’ombra sembra modellare la luce, per determinare la nascita di nuove atmosfere. Adottando tempi di posa estesi, la Mariniello fa convivere, nelle proprie immagini, gli ultimi barlumi del giorno con gli effetti del flash. L’incontro tra queste due diverse luci - una naturale, l’altra artificiale – le consente di trasformare – come d’incanto – il mare in una tavola immobile, il cielo in una impenetrabile coltre di fumo, i cartelloni pubblicitari in icone che specchiano. Le fotografie di Raffaela Mariniello sono disposte su questa impercettibile soglia, in bilico tra il giorno e la sera. Tra ciò che è accaduto e quel che sta per succedere.

La città della fotografia

Stefania Zuliani

La città, ancora. I suoi spazi e le sue distanze, sempre più sfuggenti, architetture e detriti; il traffico imperfetto, persino invisibile, delle merci e delle conoscenze, il silenzio metallico dei cantieri, abbandonati per la notte oppure attutiti dalla polvere e dalle erbe selvatiche; l’invenzione prodigiosa della luce, accecante, impietosa, che suggerisce ogni volta inedite vie d’uscita, orizzonti artificiali e provvisori nel tessuto fitto delle mura urbane, dove il passato ormai di rado ha il tempo di diventare memoria e si fa rapidamente scoria o museo, residuo o feticcio, più raramente, felicemente, visione. La città, nel tempo nostro segnato dal continuo sovrapporsi e cancellarsi dei confini, da una civiltà planetaria che non ha trovato ancora le sue parole, più che un perimetro e un chiuso recinto è il desiderio, la possibilità di un luogo da abitare, un’utopia fragile di cui la fotografia, inesorabile esercizio del giudizio, un giudizio universale, ha detto Agamben, condivide la natura, inquieta e perentoria. La città e la fotografia partecipano, infatti, di una stessa impossibilità, si vogliono entrambe costruzione – un testo, una partitura – in grado di tenere assieme, ben tesi, il rigore rasserenante della geometria e lo stupore vertiginoso della soggettività, la certezza del progetto e la verità più sottile, folgorante, della poesia. Non è un caso che le cinque, seducenti fotografie con cui Raffaela Mariniello ha guardato per la prima volta a Salerno, accogliendo l’invito della galleria Leggermente Fuori Fuoco e di Salerno Fotografia, che di questo lavoro, con cui prende l’avvio un progetto dedicato all’immagine della città campana, sono, innanzitutto, committenti, siano raccolte in una mostra il cui titolo non rivela ma confonde. Una misura – le 39 miglia che si dice corrano fra Napoli e Salerno – che è, senza dubbio, un’ipotesi e una metafora, un errore virtuoso perché non si può veramente calcolare la distanza fra due città come, ce lo ha insegnato Alighiero Boetti, non si può misurare la lunghezza dei fiumi: le acque sprofondano e riemergono, le città contravvengono i limiti cartografici, dilagano negli accenti e nei segnali, si contraggono, talvolta, nei recinti della tradizione.

Del resto, il lavoro fotografico di Raffaela Mariniello, esito ultimo di una matura ricerca che da anni privilegia proprio l’urbano come territorio d’indagine e di creazione, si nega con decisione ad ogni tentazione documentaria, non è cronaca e neppure racconto, e senza rinunciare alla didascalia, che da sempre è completamento e, assieme, perversione di ogni fotografia, fa delle sue immagini, dilatate nelle dimensioni (100x120 è il formato scelto) come pure nei tempi, lenti e pazienti, dello sviluppo e della stampa, un campo di forze – di forme e di colori - che non ha bisogno di riconoscersi in un luogo specifico. Certo, il gioco dei riscontri e la scoperta delle prospettive è possibile: è nel porto di Salerno, nel suo centro antico e nella sua periferia che l’artista ha scelto di mettere alla prova il suo sguardo, ma poi la fotografia, che è impronta e icona della realtà, trova le sue ragioni più vere proprio nella distanza, senza misura, che la lega al dato di realtà, all’evidenza delle cose. Proprio come la città, che non si fonda sulle pietre e che neppure può identificarsi completamente nei suoi monumenti riconoscendosi, piuttosto, nella comunità che nel tempo ha desiderato, costruito, anche distrutto le sue mura, in un processo che non ha fine se davvero la città, come la fotografia, è «il perenne esperimento per dare forma alla contraddizione».